Che fine ha fatto? Ortega, il Burrito che ha pagato il paragone con Maradona
Talento puro, cristallino. Un dieci come non ne nascono più, dotato di numeri da far stropicciare gli occhi agli spettatori. Niente frasi fatte, solo l'essenza di quello che è stato Ariel Ortega, vero e proprio genio del calcio che, ai colpi del campione di cui era dotato, non è mai riuscito ad affiancare la continuità necessaria per essere considerato tale. Il Burrito (l'asinello) non ha mai considerato il calcio troppo seriamente, con la mente è sempre rimasto ai campetti di Ledesma, quando faceva impazzire i ragazzini più grandi a suon di gol e dribbling. Per lui il calcio è sempre stato puro spettacolo e divertimento, tanto da valutare le sua prestazioni in base ai numero di tunnel fatti agli avversari.
IDOLO MILLIONARIOS - Nasce nel 1974 e muove i primi passi nelle strade di Ledesma, ma il suo talento è troppo evidente per non essere notato e messo a disposizione della selezione locale. Nell'estate del 1991 l'Atletico Ledesma partecipa ad uno di quei tornei organizzati dalle grandi squadre per scovare talenti e Ariel incanta gli osservatori del River Plate che lo mettono immediatamente sotto contratto, convinti di aver scovato un fenomeno. Da quel momento inizia un idillio lungo quasi venti anni. Esordisce con la "banda" non ancora maggiorenne e da subito diviene idolo indiscusso del Monumental. In lui i tifosi Millionarios rivedono le gesta di un giovane Maradona, eroe del popolo argentino cresciuto con la maglia degli acerrinimi nemici del Boca Juniors. Se l'etichetta di nuovo Maradona da principio esalta il giovane Ortega, nel proseguio della sua carriera si rivelerà un macigno troppo opprimente. All’ombra del Monumental El Burrito disputa cinque campionati vincendone tre, ma soprattutto, a fianco di compagni del calibro di Almeyda, Francescoli, Ayala e Crespo, riporta a Buenos Aires sponda biancorossa la Coppa Libertadores. Ortega da idolo diventa eroe, nonostante la finale di Coppa Intercontinentale persa contro la Juventus.
LO SBARCO IN EUROPA - Troppo forte il richiamo del calcio che conta, troppa la voglia di mettersi alla prova in Europa, così, dopo 144 presenze e 30 reti con la maglia del River Plate, nel gennaio del 1997 Ortega accetta l'offerta del Valencia. I primi sei mesi nella Liga mostrano al popolo spagnolo un Ortega sensazionale: nonostante il tecnico Claudio Ranieri lo consideri un giocatore fumoso e narcisista conclude la stagione con 7 reti in 12 presenze che gli valgono la convocazione a France '98. L'albiceleste conclude la sua avventura ai quarti di finale con Ortega assoluto protagonista nel bene e nel male. Nei quarti di finale cerca continuamente di irridere la difesa oranje fino a far perdere la pazienza a Staam che lo stende in area, l'arbitro fa proseguire e Ortega scarica la sua frustrazione rifilando una testata a Van Der Saar che gli costa il cartellino rosso e permette agli olandesi di accedere alla semifinale. I rapporti con Claudio Ranieri si incrinano definitivamente durante la seconda stagione levantina: Ortega si accende ad intermittenza disattendendo le enormi aspettative della critica, sfogando nell'alcool la frustrazione di non riuscire a dimostrare le sue enormi potenzialità, atteggiamento che gli costa una serie interminabile di tribune. A fine stagione la Sampdoria presenta al Valencia un'offerta da 23 miliardi di vecchie lire, rendendo il divorzio con i bianconeri inevitabile.
L'ESPERIENZA ITALIANA - In blucerchiato Il Burrito sfoggia tutte le sue qualità e i suoi limiti. Capace di gol d'antologia (chiedere conferma a Pagliuca, vittima di uno strepitoso pallonetto in un Samp-Inter finito 4-0) e giocate d'alta scuola, dimostra di essere poco propenso al sacrificio e alla condotta indispensabile per un professionista. Nonostante lo strepitoso tandem d'attacco formato con Vincenzo Montella, l'argentino non riesce ad evitare la retrocessione della Sampdoria in Serie B, ma ai tifosi blucerchiati resteranno per sempre nelle memoria le sue splendide punizioni e i difensori avversari saltati come birilli. Il Parma di Tanzi decide di concedergli un'altra opportunità. Il ricongiungimento della coppia Crespo-Ortega infiamma i tifosi ducali, ma complice qualche infortunio di troppo il dieci argentino conclude la stagione con soli 3 gol in 18 presenze. Una nuova delusione che lo spinge a fare ritorno nell'amato River.
DI NUOVO A CASA - Sarà per l'aria di casa, sarà per i ritmi blandi del calcio argentino, ma Ortega sembra rinascere: in due stagioni colleziona 56 presenze e 23 reti, coronate dalla conquista di un torneo di Clausura che gli vale la convocazione alla fallimentare spedizione argentina del Mondiale nippo-coreano del 2002. In patria, complici i risultati non esaltanti della nazionale, la pressione aumenta e le voci riguardo una sua dipendenza cronica dall'alcool iniziano a farsi sempre più opprimenti, così che Ortega è quasi costretto ad accettare l'offerta dei turchi del Fenerbache per sfuggire alla gogna mediatica argentina. L'avventura turca dura 6 mesi, fino a quando risponde alla convocazione della nazionale albiceleste e decide di non fare ritorno ad Istanbul, follia che gli costa un contenzioso con il club turco e una squalifica che lo porta a dare l'addio al calcio.
L'AVVERSARIO PIU' DURO - Dopo un anno di inattività la voglia di campo inizia a farsi sentire e la proposta del Newell's Old Boys lo porta a ritornare sui suoi passi: due anni a Rosario culminati con la vittoria dell'Apertura 2004, poi di nuovo al River Plate, poi un presitito al All Boys, per arrivare all'ultima stagione da professionista al Belgrano. Otto stagioni trascorse in Argentina accomunate da un fattore: l'alcolismo. Una dipendenza che lo ha accompagnato per un lungo periodo e che non solo gli ha impedito di allenarsi come un vero professionista, ma che ha messo a repentaglio più volte la sua vita. Dopo il buio per Ortega sembra però tornata la luce. Grazie a chi se non al tanto amato River Plate? Il presente di Ariel è in panchina, al fianco dell'amico Gustavo Zapata alla guida della squadra riserve dei Millionarios.