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Zizou, dalla Juve alla testata mondiale: un mito, ma ha il carattere per allenare?
Vent’anni dopo l’arrivo alla Juve, passo decisivo per l’affermazione come fuoriclasse assoluto, e dieci anni dopo la testata a Materazzi, passo finale di una carriera mirabile, Zinedine Zidane diventa allenatore del Real Madrid. Sembra un appuntamento fisso, insomma: ogni decennio, un evento che decide della sua carriera e della sua vita, dal 1996 a oggi passando per il 2006. Ma per lui molti ce ne sono stati, di momenti importantissimi, anche in anni diversi: il titolo mondiale (1998) e quello europeo (2000), i campionati vinti (con la Juve nel ’97 e ’98, con il Real nel 2003), il Pallone d’oro (’98) e uno dei gol più belli nella storia della Champions (al Bayer Leverkusen, nella finale del 2002).
Ricordiamo la prima partita, anzi partitella che Zidane giocò nella Juve, un’amichevole estiva nel suggestivo stadiolo di Aosta, nel centro della città. Si capì subito che non era arrivato un giocatore normale, benché gli avessero sbagliato il ruolo: pensavano di aver preso il sostituto di Paulo Sousa - sì, quello che ora sta meravigliando con la Fiorentina - invece avevano comprato uno che doveva muoversi trenta metri più su, non davanti alla propria difesa ma dietro alle punte. Non impiegò molto Lippi a comprendere e cambiare: gli mise alle spalle Deschamps e ai fianchi Conte e Di Livio e liberò la classe di Zizou. Certo era un centrocampo che di senso tattico ne aveva in abbondanza, come ama ricordare proprio Lippi: il ct della Francia, il ct dell’Italia, l’allenatore del Real Madrid.
Quello che è stato Zidane da calciatore, ce lo siamo gustato tutto: tecnicamente uno dei più grandi degli ultimi cinquant’anni e anche uno dei più belli a vedersi, elegante al punto che pareva danzare sulla palla.
Oggi che comincia sul serio la carriera di allenatore, però, ci vengono in mente certi aspetti del suo carattere che ci portano a riflettere. Zidane non era un leader nello spogliatoio, perché parlava poco, quasi niente; leader poi lo diventava in campo, per le qualità incredibili dei suoi piedi, ma è un’altra cosa. Educato nel proporsi, gentile nei modi, lo avresti detto non solo docile ma addirittura remissivo. Poi capitava che ogni tanto, anzi spesso, perdesse la testa e allora non riusciva a controllarsi. In tredici anni di carriera ha rimediato quattordici espulsioni, e se negli occhi di tutti è rimasta l’aggressione a Materazzi, come dimenticare la testata a Kientz in un Juve-Amburgo 1-3 di Champions League o l’altro cartellino rosso rimediato ai Mondiali del ’98, quando calpestò un povero saudita.
Zitto oppure folle, pacatissimo oppure violento: un fuoriclasse dal carattere particolare, strano, esagerato in un senso e nell'altro. Chissà se adatto a gestire il Real Madrid, dove l’aspetto tecnico e tattico è solo uno dei tanti con cui deve confrontarsi un allenatore. Sì perché poi ci sono i campioni, i tifosi, il club, le pressioni, le ambizioni dei singoli, i risultati che non possono mancare.
Lo seguiremo con simpatia, perché gli siamo grati di quanto ha saputo mostrarci con il pallone tra i piedi, e anche con curiosità. Vogliamo scoprire se può essere pure un grande tecnico. Vogliamo capire, insomma, se questi ultimi dieci anni lo hanno reso un po’ meno silenzioso e un po’ meno folle. Perché un allenatore deve parlare e non dare testate.