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Timossi: Eder, quell'altro
Eder, quell’altro. Quello che segnava dalla bandierina, gol olimpico, specialità tutta brasiliana, parola che sta nei vocabolari di portoghese e spagnolo, ma è quasi ignorata dai dizionari italiani, inglesi, tedeschi e francesi. Non è un caso, il “gol olimpico” è specialità loro: lo “inventò” un argentino nel 1924, segnando dalla bandierina, contro l’Uruguay, fresco campione olimpico. Poi, nel Brasile dei giocolieri diventò un gioco nel gioco. Appunto, specialità loro, nel Sud caldo dell’America.
Eder, quell’altro. Chi era bambino negli anni Ottanta non lo ha dimenticato. “Segna sempre dalla bandierina”, dicevano. Quanti ne segnò non si sa, non si trova, ma le leggende sono anche più belle delle statistiche.
Mondiali del 1982, Spagna del primo post franchismo, per Eder presunti problemi alla dogana: “C’è della dinamite in quel suo piede sinistro”. Gioca nell’Atletico Mineiro, la sua squadra, ci resterà fino all’estate brasiliana del 1985. In Spagna parte a razzo. Esordio, gol partita contro l’Unione Sovietica, a due minuti dalla fine, finisce 2-1. Via, seconda gara, contro una Scozia dalle maglie bellissime. Altro gol. Pallonetto, senza neppure far esplodere la dinamite. Poi è pioggia sulle polveri: Eder resta a secco contro Nuova Zelanda, Argentina e Italia. Ci prova da calcio d’angolo, certo. Zoff blocca, in due tempi. Ricordate? Tiè, gol olimpico. Il Brasile torna a casa, Eder pure. L’Italia batte ancora Polonia e Germania Ovest, vince il Mondiale.
Eder, quell’altro. Era anche un altro gioco. Non necessariamente, ma probabilmente più bello. Un football con più foto e meno immagini tv, dove i campionati esteri li raccontava solo il Guerrin Sportivo. Un calcio più pulito? Forse no, in Italia era appena finito il primo calcio scommesse. E, come ci racconterà la buonanima di Carlo Petrini, nelle vene dei suoi colleghi calciatori scorreva un po’ di tutto. Più pulito no, ma più onesto, meno bugiardo. Il paradosso inizierà qualche anno dopo, quando le immagini tv vinceranno sulle fotografie, quando le telecamere inizieranno a entrare ovunque. Quando per il football reality show diventerà necessario scrivere un copione ogni partita, giorno, ora.
Eder, quell’altro. Estadio Sarrià, Barcellona, 5 luglio 1982. Tabellino.
Italia: Zoff, Gentile, Cabrini, Oriali, Collovati (Bergomi), Scirea, Conti, Tardelli (Marini), Rossi, Antognoni, Graziani. Selezionatore: Bearzot.
Brasile: Valdir Peres, Leandro, Junior, Cerezo, Oscar, Luisinho, Socrates, Falcao, Serginho (Paulo Isidoro), Zico, Eder. Commissario tecnico: Santana.
Reti: 5' Rossi, 12' Socrates, 25' Rossi, 68' Falcao, 74' Rossi.
Gli italiani lo recitano come un mantra. I brasiliani, in fondo, pure: hanno sempre dato un valore sublime alle lacrime. E sanno che quella resta la quinta nazionale più bella della storia del calcio, comunque. Resta l’Utopia del pallone.
Eder quest’altro, quello italiano, porta il nome di quell’altro, quello brasiliano. Volle così il babbo dell’oriundo che sotto il diluvio di Sofia ha salvato l’Italietta di Conte dalla sconfitta contro la Bulgaria.
Eder Citadin Martins è nato il 15 novembre 1986, quattro anni e mezzo dopo il Mondiale di Spagna. E’ arrivato in Italia nel gennaio 2005, a Empoli gli hanno dato la cittadinanza per via del nonno, uno dei tanti immigrati che dal Veneto partì per il Sudamerica. Eder, quest’altro, aveva un nome che sembrava un soprannome. Ne conseguirono molte aspettative, pure troppe. Benino a Empoli, subito. Sembrava destinato alla Fiorentina di Pantaleo Corvino. “Non convince, manca di potenza”. Per diversi anni l’analisi sembrò azzeccata. Benino a Frosinone, in prestito. Meglio a Empoli, dove torna nel campionato 2009-2010: 40 presenze, 27 gol. Brescia, Cesena, Sampdoria, prima in serie B, poi in A. La consacrazione, l’oriundo va in Nazionale.
Non ci sarebbe nulla da scandalizzarsi. Sarebbe pure una bella storia da raccontare, integrazione e via discorrendo: l’Italia diventa multietnica, come la Francia che vinse il Mondiale, la Germania. Balle, è storia di “contrabbando” calcistico, non si arrabbi il commissario tecnico Antonio Conte. In fondo questa è un’Italia pasticciata, basta adeguarsi. Bisogna tirare a campare, un mantra sembra non serva più. Peccato, era davvero un bell’inno: Zoff, Gentile, Cabrini, Oriali, Bergomi, Scirea, Conti, Tardelli, Rossi, Antognoni, Graziani.
Giampiero Timossi