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    Riecco Mourinho, lo Special One è tornato: quanto manca alla Serie A!

    Riecco Mourinho, lo Special One è tornato: quanto manca alla Serie A!

    • Matteo Quaglini
    Ha compiuto da poco gli anni, cinquantacinque. Ha rinnovato il contratto con il Manchester United per due, fino al 2020. Ha ritrovato la vena polemica di un tempo, dopo averla per un momento sopita. Ha ricominciato, sul mercato, a comprare giocatori degli altri grandi allenatori. In quattro mosse è tornato sul luogo del delitto, il teatro del pallone. Di nuovo consapevole, di nuovo napoleonico, di nuovo lui, ma diverso anche. Resiliente. Asciutto in panchina e debordante in sala conferenze.

    Josè Mourinho è rinato, in quella che oggi è la sua Manchester. Non più la città grigia in cui, nei primi mesi dello scorso anno, faceva il pendolare, ma il posto sempre sognato e agognato per allenare la migliore squadra inglese dell’ultimo trentennio. Ancora una volta sì è comportato come facevano gli indiani di fronte all’esercito americano o ai cowboys yankee: ha cambiato il suo stile, ha ritrovato tratti forti e cancellandone degli altri ormai obsoleti si è preparato come dicevano loro, gli indiani alla Toro Seduto, per la battaglia. Il suo ritorno viene da lontano, dall’impianto di gioco e dalle vittorie che ha conseguito una stagione fa e tutto questo oggi, che il percorso verso la riconquista al trono d’Inghilterra prosegue imperterrito, fa nascere una domanda semplice e controversa al tempo stesso: Josè Mourinho manca come allenatore al calcio italiano? La risposta è sì. Sì, perché è un grande allenatore e i grandi allenatori come i grandi registi o attori servono al cinema e al teatro per renderli più grandi, più avvincenti, più emozionanti e più seguiti. I grandi allenatori che creano dibattito tecnico e ideologico servono al movimento calcistico nostrano per farlo uscire dalla mediocrità della routine, dal grigiore del politicamente corretto, dall’imbolsimento dei temi, dalla pochezza dei contenuti della retorica, intesa come discussione sul tema.

    Ecco Mourinho, questo nuovo Mourinho servirebbe al calcio italiano di questa fase storica piatta, solo fintamente competitiva e invece di nuovo ancorata al duello Juventus-Napoli, con la speranza macelata che nostra signora degli scudetti non rivinca per non essere, come sostiene qualcuno, il nuovo campionato francese dei tempi del Lione. Un rivoluzionario in un mondo conservatore come il pallone italiano ci starebbe bene, e porterebbe un grande contributo. Tecnico prima ancora che di comunicazione.

    Sì, perché l’errore comune, lo stereotipo anacronistico è che Mou sia solo comunicazione e nulla più. Non è così. È un grande allenatore perché compie una sintesi in tutti i settori in cui va gestita una squadra. In quello tecnico la sintesi è nella sua capacità di costruire la squadra, di scegliere gli uomini cioè, come facevano i grandi generali delle guerre antiche: "La fiducia che un uomo ha nell’esercito, si basa sulla sua forza di carattere". A dirlo non è stato lui certo, ma Erich von Manstein, il più grande generale tedesco della Seconda Guerra Mondiale. In un personalismo come questo troviamo Mou. Lui ha fiducia in se stesso certo, travalicando delle volte il buon senso, ma ha fiducia principalmente nei suoi. Grande fiducia. È la sintesi più grande con cui sceglie i giocatori ed è il modo di fare che avevano i grandi del calcio italiano di un tempo: Capello, Lippi, Liedholm, Rocco, Bearzot. 

    C'è metodo in queste selezioni, non plagio di parole. L'altra sintesi è lo sviluppo della tattica. Il suo essere stato assistente dagli allievi alle prime squadre ha generato in lui la capacità di osservare i dettagli, di studiare molti metodi e creare il suo con un sincretismo tra questi, di capire che l'essenzialità è la sua cifra tecnica per vincere. Per questo non conta nulla se il gioco, il suo gioco, sia bello. Il fine è un altro, quello di vincere nel minore tempo possibile e continuare a muoversi per farlo. Un'idea forse che ha ripreso da Ulysses S. Grant, generale dell'unione al tempo della secessione americana: "L'arte della guerra (…di una partita, di un campionato parafrasiamo) è semplice. Scopri dove si trova il nemico. Raggiungilo il prima possibile. Colpiscilo il più forte che puoi e continua a muoverti". Mourinho ha applicato esattamente questa strategia al suo modo di stare in campo, al suo saper giocare senza palla in controllo difensivo del gioco, al suo saper colpire l'avversario nel punto debole dopo averlo studiato a fondo. 

    È alto senso strategico questo non gioco. Tutto questo non farebbe bene al calcio italiano, re ancora tra tutti della tattica? Non porterebbe uno scontro tecnico ancora più interessante con gli integralismi di Sarri ad esempio? E ancora non farebbe cercare più movimenti offensivi a Spalletti e alla sua Inter per eludere il suo muro? Esalterebbe lo scontro tecnico con la Lazio dal contropiede lungo, e probabilmente, costringerebbe la Roma a crescere nel suo punto debole atavico, la mentalità come avvenne nel 2010. Un rivale a stimolare tutti, a far crescere l'ingegno degli altri, le contromosse carattere imprescindibile dei grandi, e a confrontarsi anche con alcuni dei più bravi che sono sottovalutati come Gasperini. 

    La terza sintesi è la comunicazione, mantra dei suoi migliori momenti, e anche dei suoi gravi errori, così come delle sue mai nascoste arroganze. Ha fuso in sè Helenio Herrera e Brian Clough e questo è il punto di partenza, la genesi del suo essere, come lo definì il magazine Rolling Stone, rockstar dell'anno. Un Jim Morrison del calcio, un Kurt Cobain della linea laterale, un Robin Hood che va sempre all'opposizione, scorretta e dura con le squadre: Ha sempre scelto di opporsi ai vincenti del momento, o con gli allenatori: la vicenda Conte è fresca e forte, antipatica e dura. In un concetto, pungente. Un po' di vena polemica, un po' di forza nel difendere le proprie idee quando tutti non sono d’accordo, servirebbe al calcio italiano non per la retorica dei titoloni, no. Ma per renderlo vivo, suggestivo, per scuoterlo da dentro nella pancia e nel cuore. Giulio Cesare disse: “Venni, vidi, vinsi”, era il modo più arrogante ma vero per dire di sé e anche, per raccontare di come aveva scosso e cambiato gli altri. Come fa Josè Mourinho solo da Manchester, purtroppo.

    @MQuaglini  

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