Calciomercato/Getty
Ranieri e Marotta portano a scuola le proprietà straniere in Serie A: da noi si vince così
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Claudio Ranieri e Beppe Marotta. Due personaggi a modo loro fondamentali per spiegare il concetto di mentalità vincente e a far comprendere a di chi calcio vive e dovrebbe vivere cosa significhi fare parte di un grande club. Dove tradizione, palmarés e ambizione verso il futuro si fondano in una cosa sola. Due voci autorevoli e credibili per quello che hanno saputo costruire negli anni, ovunque abbiano lavorato. Mantenendo e mantenendosi a certi livelli e confermando che oggi la ricetta per vincere, almeno in Italia, è sempre la stessa: una società forte, ben strutturata e soprattutto presente in ogni momento è ingrediente imprescindibile. Lo ha rimarcato con toni decisi e chiari Ranieri, che da qui a giugno sarà il terzo allenatore della tribolata stagione giallorossa dopo De Rossi e Juric, ma guardando soprattutto al futuro e al suo ruolo di dirigente/consulente che avrà il compito di suggerire le migliori soluzioni alla proprietà Friedkin.
“Io gli ho detto di parlare con i tifosi e lui mi ha detto ‘tempo al tempo’. Purtroppo, in Italia il presidente deve farsi vedere. Le proprietà straniere parlano pochissimo. Io quando non parlavano stavo in grazia di dio. All’estero non esiste la figura del presidente. Esiste solo per fine mese. Si è reso conto? Se mi ha chiamato sì. Se ci sono stati dei personaggi che hanno sbagliato lo avrà capito lui. Mi ha detto che vuole portare la Roma ad alti livelli per questo ha chiamato me”. Con poche parole Claudio Ranieri ha tratteggiato quella che è stata la principale difficoltà dei Friedkin a registrarsi sulle stesse frequenze di una città impegnativa come Roma, in cui il calcio è vissuto come un fatto di passione, qualcosa di profondamente viscerale. Dove il controllo a distanza, quasi passivo, non funziona e non può funzionare. Dove non basta affidarsi a consulenti che influenzano più di un uomo di campo o di un direttore sportivo. Dopo il ritorno di Ranieri nelle vesti di allenatore oggi e di direttore tecnico poi, non sarebbe una sorpresa se Dan Friedkin scegliesse un italiano come nuovo amministratore delegato. Perché solo una persona con competenze e conoscenze della nostra particolare realtà avrebbe la possibilità di incidere concretamente, a Trigoria come nella sede all'Eur del club o nelle famigerate stanze dei bottoni della Serie A.
Da Roma spostiamoci a Milano, direttamente nella casa dei campioni d'Italia in carica. All'Inter è innegabile che tutto sia cambiato quando Beppe Marotta abbia trasferito da Torino il suo patrimonio di conoscenze e la sua capacità di costruire un gruppo di lavoro forte e coeso, nel quale i ruoli e le responsabilità fossero ben definite. E in cui la scelta degli uomini è stata spesso e volentieri giusta e azzeccata in ogni suo interprete. La figura dell'allenatore per esempio è sempre stata centrale e passare da Spalletti a Conte e da Conte a Inzaghi è la dimostrazione plastica che Marotta abbia avuto sempre le idee chiare su come riportare i nerazzurri al vertice. Poi ci sono anche i giocatori, certo, e la capacità di individuare quelli adatti per ogni situazione. E anche in questo, lavorando a stretto contatto con Piero Ausilio, Beppe Marotta ha commesso pochi errori. Come non sbaglia quando, in occasione di una sua recentissima partecipazione ad un evento pubblico, dichiara: “Una società come l’Inter, per storia, blasone e palmares, per tutta questa attenzione che cerchiamo, non può dire voglio vincere o il campionato o la Champions, ma deve cercare di vincere sempre. Ecco perché io sono sempre molto realista. Quando sento dirigenti di squadre importanti dire che l’importante è arrivare tra le prime quattro… No, l’importante è vincere, poi se non si vince, benissimo, significa che gli avversari sono stati più bravi. Oggi siamo in Champions, e allora perché non lottare per vincerla? Perché non lottare anche in campionato? Poi dipende dagli avversari e anche da noi, ma non dobbiamo avere paura e mi sembra scontato”.
Miele per i tifosi dell'Inter, che dopo anni di successi confidano col loro presidente di rimanere ancora punto di riferimento per il calcio italiano sia in ambito nazionale che internazionale. Veri e propri dardi (avvelenati?) invece per certi avversari, che stanno provando a tornare in quota dando la sensazione di seguire ricetti e metodologie diverse. L'attenzione ai conti, importante per tutti, che prende il sopravvento nei discorsi pubblici, sottolineando l'imprescindibilità di garantirsi ogni anno la partecipazione alla Champions League e l'accesso ai suoi ricchi introiti. Da un punto di vista meramente aziendale nulla di sbagliato, visto che a vincere lo Scudetto è solamente uno e troppi sono i fattori che concorrono al successo finale. Poi però si parla di calcio e in Italia, fino a prova contraria, soltanto chi taglia per primo la linea del traguardo ha diritto di parola.
Funziona così, fintanto che lo sport sarà sport e voglia di competere per superare l'avversario e non guardare al profitto economico. Una mentalità giustamente radicata nei nostri usi e costumi, che poco ha a che vedere con la visione marketing oriented in arrivo dagli Stati Uniti e dalle proprietà straniere espressioni di questa filosofia. Che anche nel nostro Paese e in Serie A iniziano ad essere sempre di più. E che da pochi mesi a questa parte sono strettamente connessi pure all'Inter di Marotta. Che, insieme a Ranieri, ha ricordato a tutti quanti che “The Italian job” ha ancora il suo perché.
“Io gli ho detto di parlare con i tifosi e lui mi ha detto ‘tempo al tempo’. Purtroppo, in Italia il presidente deve farsi vedere. Le proprietà straniere parlano pochissimo. Io quando non parlavano stavo in grazia di dio. All’estero non esiste la figura del presidente. Esiste solo per fine mese. Si è reso conto? Se mi ha chiamato sì. Se ci sono stati dei personaggi che hanno sbagliato lo avrà capito lui. Mi ha detto che vuole portare la Roma ad alti livelli per questo ha chiamato me”. Con poche parole Claudio Ranieri ha tratteggiato quella che è stata la principale difficoltà dei Friedkin a registrarsi sulle stesse frequenze di una città impegnativa come Roma, in cui il calcio è vissuto come un fatto di passione, qualcosa di profondamente viscerale. Dove il controllo a distanza, quasi passivo, non funziona e non può funzionare. Dove non basta affidarsi a consulenti che influenzano più di un uomo di campo o di un direttore sportivo. Dopo il ritorno di Ranieri nelle vesti di allenatore oggi e di direttore tecnico poi, non sarebbe una sorpresa se Dan Friedkin scegliesse un italiano come nuovo amministratore delegato. Perché solo una persona con competenze e conoscenze della nostra particolare realtà avrebbe la possibilità di incidere concretamente, a Trigoria come nella sede all'Eur del club o nelle famigerate stanze dei bottoni della Serie A.
Da Roma spostiamoci a Milano, direttamente nella casa dei campioni d'Italia in carica. All'Inter è innegabile che tutto sia cambiato quando Beppe Marotta abbia trasferito da Torino il suo patrimonio di conoscenze e la sua capacità di costruire un gruppo di lavoro forte e coeso, nel quale i ruoli e le responsabilità fossero ben definite. E in cui la scelta degli uomini è stata spesso e volentieri giusta e azzeccata in ogni suo interprete. La figura dell'allenatore per esempio è sempre stata centrale e passare da Spalletti a Conte e da Conte a Inzaghi è la dimostrazione plastica che Marotta abbia avuto sempre le idee chiare su come riportare i nerazzurri al vertice. Poi ci sono anche i giocatori, certo, e la capacità di individuare quelli adatti per ogni situazione. E anche in questo, lavorando a stretto contatto con Piero Ausilio, Beppe Marotta ha commesso pochi errori. Come non sbaglia quando, in occasione di una sua recentissima partecipazione ad un evento pubblico, dichiara: “Una società come l’Inter, per storia, blasone e palmares, per tutta questa attenzione che cerchiamo, non può dire voglio vincere o il campionato o la Champions, ma deve cercare di vincere sempre. Ecco perché io sono sempre molto realista. Quando sento dirigenti di squadre importanti dire che l’importante è arrivare tra le prime quattro… No, l’importante è vincere, poi se non si vince, benissimo, significa che gli avversari sono stati più bravi. Oggi siamo in Champions, e allora perché non lottare per vincerla? Perché non lottare anche in campionato? Poi dipende dagli avversari e anche da noi, ma non dobbiamo avere paura e mi sembra scontato”.
Miele per i tifosi dell'Inter, che dopo anni di successi confidano col loro presidente di rimanere ancora punto di riferimento per il calcio italiano sia in ambito nazionale che internazionale. Veri e propri dardi (avvelenati?) invece per certi avversari, che stanno provando a tornare in quota dando la sensazione di seguire ricetti e metodologie diverse. L'attenzione ai conti, importante per tutti, che prende il sopravvento nei discorsi pubblici, sottolineando l'imprescindibilità di garantirsi ogni anno la partecipazione alla Champions League e l'accesso ai suoi ricchi introiti. Da un punto di vista meramente aziendale nulla di sbagliato, visto che a vincere lo Scudetto è solamente uno e troppi sono i fattori che concorrono al successo finale. Poi però si parla di calcio e in Italia, fino a prova contraria, soltanto chi taglia per primo la linea del traguardo ha diritto di parola.
Funziona così, fintanto che lo sport sarà sport e voglia di competere per superare l'avversario e non guardare al profitto economico. Una mentalità giustamente radicata nei nostri usi e costumi, che poco ha a che vedere con la visione marketing oriented in arrivo dagli Stati Uniti e dalle proprietà straniere espressioni di questa filosofia. Che anche nel nostro Paese e in Serie A iniziano ad essere sempre di più. E che da pochi mesi a questa parte sono strettamente connessi pure all'Inter di Marotta. Che, insieme a Ranieri, ha ricordato a tutti quanti che “The Italian job” ha ancora il suo perché.
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