Quando il calcio era un pallone: brevi appunti delle domeniche di una volta
Quando sulle gradinate passava l’omino che vendeva bibite e panini, nessuno si sarebbe mai sognato di sbarazzarsi della bottiglia di gassosa vuota lanciandola in campo o spaccandola sulla testa del tifoso avversario.
Quando le società non avevano paura di beccarsi le multe per cori oltraggiosi perché una delle frasi più offensive gridate dagli ultras a “Bettega, pistola, Bonimba ti fa scuola”.
Quando Jair, dell’Inter, o Nenè, del Cagliari, e Germano del Milan erano rispettivamente due campioni accertati e una povera pippa, non tre “sporchi negri”. Quando i giocatori della tua squadra, il sabato pomeriggio, potevi trovarli tutti insieme in un cinema del centro e a fine spettacolo ti firmavano l’autografo.
Quando i giocatori arrivavano allo stadio con il tram.
Quando le squadre facevano le trasferte in treno con i tifosi al seguito e al ritorno li guardavi mentre giocavano a carte parlando senza problemi ei fatti loro.
Quando, la domenica, la televisione non trasmetteva le partite in diretta e allora andavi al parco con la famiglia. Bambini in giostra custoditi dalla mamma e tu con la radiolina, sotto un albero, ad ascoltare “Tutto il calcio minuto per minuto”. Quando, finita la patta, eri libero di tornare a casa cin la bandiera della tua squadra, al vento, appoggiata sulla spalla.
Quando ti fermavi davanti alla porta del bar a leggere la lavagna verde con i risultati e non facevi mai “tredici”.
Quando i calciatori non li distinguevi dal tatuaggio o dal nome sulle maglie perché li avevi conosciuti benissimo durante gli allenamenti aperti della settimana.
Quando i presidenti e gli allenatori sbagliavano i congiuntivi ma dicevano quel che pensavano veramente.
Quando il bravo mister era quello che sapeva allevare, istruire e lanciare i giovani e non si atteggiava a generale Patton prima della battaglia decisiva. Quando i bagarini erano, mediamente, dei poveri cristi che tentavano di sbarcare il lunario la domenica pomeriggio e non bande organizzate di ricattatori.
Quando i procuratori erano soltanto quelli della Repubblica italiana perché i calciatori i proprii interessi se i curavano da soli.
Quando, con i risparmi di una carriera, il campione apriva un bar e non potava certo permettersi di comprare mezza Costa Azzurra.
Quando i calciatori si fidanzavano e si sposavano con la commessa di una boutique o con una impiegata dell’Inps.
Quando Alassio o Finale Ligure erano il top per le vacanze del campione. Quando i tornelli li trovavi soltanto all’ingresso della Metropolitana.
Quando per scoprire nuovi talenti gli osservatori giravano per oratori e campi di periferia.
Quando non era vero che in tribuna andavano solo i signori ben educati, perché era proprio lì che si vedevano e si sentivano le peggiori cose.
Quando il confronto tra tifosi finiva a insulti per la tremenda serie di “cretino” e “maleducato”
Quando sapevi a memoria la formazione delle squadre senza la necessità di fare un corsi di lingue straniere.
Quando un mediano, come Oriali, poteva ispirare un cantautore per la composizione di una bella canzone. Quando sulle maglie del Torino comparve il nome di una fabbrica di cioccolato, il primo sponsor della storia, e la gente si chiese dove di quel passo si sarebbe andati a finire.
Quando se un giocatore si faceva male non poteva essere sostituito e allora vedevi chi aveva davvero le palle.
Quando gi arbitri, al massimo, erano soltanto “cornuti”.
Quando una società, nel corso di una stagione, aveva un solo allenatore in panchina e non altri tre cacciati ma ancora sotto contratto.
Quando Rita Pavone, con una canzone, fondò il movimento delle fidanzate che volevano essere portate alla patita dai loro compagni. Quando gli studi televisivi non erano affollati di ex calciatori che, salvo pochi come Costacurta e Marchegiani, parlano senza dire mai nulla di veramente interessante.
Quando le radio, in particolare quelle romane, non avevano la possibilità di scatenare guerre civili nel nome del calcio.
Quando le partite non erano sfide a scacchi.
Quando, specialmente nelle categorie più basse, la squadra che non può perdere quella tal partita in realtà perde e, insieme con i bookmakers, qualcuno si arricchisce.
Quando Beppe Viola, insieme con Enzo Jannacci, scrisse “Vincenzina” rammaricandosi di quel “Rivera che non segna più…”. Quando i cinesi giocavano soltanto a ping pong.