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    Pippo Russo: l’antidoping in Italia, urla del silenzio

    Pippo Russo: l’antidoping in Italia, urla del silenzio

    Si sta facendo un gran rumore attorno al deferimento di 26 tesserati Fidal per violazione delle norme antidoping. E come spesso succede, l’effetto del clamore è quello di distrarre e far passare sotto silenzio aspetti che invece sarebbero quelli cruciali da analizzare. Una tattica della distrazione di massa vecchia come il cucco. E deve esserci tanta cattiva coscienza quando la linea di difesa è quella di respingere un’accusa che non c’è. Ciò che in queste ore sono impegnati a fare il presidente del Coni, quello della Fidal e un pugno di personaggi a vario titolo chiamati a esprimere la loro opinione. Tutti quanti strillano per assicurare che i 26 atleti, per i quali la NADO (National Antidoping Organization) ha proposto una squalifica di due anni al Tribunale Nazionale Antidoping, non sono dopati. Un argomento che viene ripetuto come un mantra dal presidente della Fidal, Alfio Giomi, a capo di un movimento che, oltre a sfiorare l’irrilevanza sul piano delle competizioni internazionali, segna anche un’emorragia di tesserati sul piano interno (LEGGI QUI). 

    Ma perché si agita così tanto, presidente? Nessuno ha detto che gli atleti individuati dalla NADO siano dopati. Ciò di cui sono accusati è l’inadempienza degli articoli 2.3 e 2.4 del Codice Antidoping stilato dalla Wada, l’Agenzia Mondiale Antidoping (LEGGI QUI). Si tratta di quella parte del regolamento che riguarda il meccanismo del Whereabouts. Ossia i controlli a sorpresa fatti al di fuori degli impianti di gara e dalle strutture di allenamento, che comportano l’obbligo di reperibilità cui un gruppo di atleti appositamente selezionati devono sottomettersi. Nessuno sta dicendo che i 26 deferiti siano dopati. Il fatto è che non hanno nemmeno reso possibile controllare non lo fossero. E questa circostanza, se reiterata tre volte, fa scattare la sanzione. Gli articoli 2.3 e 2.4 riguardano infatti “elusione, rifiuto o omissione di sottoporsi al prelievo di campioni biologici” e “mancata reperibilità”. Non si deve per forza assumere doping per violare le norme antidoping, e il presidente di una federazione sportiva dovrebbe saperlo. Né si può ridurre l’intera vicenda a “qualche caso di negligenza e superficialità”, perché stiamo parlando di 26 atleti su 65 messi sotto controllo. Cioè il 40%. Le sembra “qualche” caso, presidente?

    Non meno curiosa la risposta del presidente del Coni, Giovanni Malagò. Secondo il quale nessuno ha barato, e addirittura il caso sarebbe colpa delle procedure, di cui atleti e federazione sono vittime. Riguardo alla prima affermazione, forse sarebbe il caso di tenere da parte le certezze pur dando per scontata la presunzione d’innocenza per ciascuno. Riguardo alla seconda, è sempre abbastanza comodo prendersela con le regole e con le procedure necessarie a applicarle, anziché coi comportamenti che le violano. In condizioni del genere, da un presidente di comitato olimpico nazionale ci si aspetterebbe un cazziatone alla federazione inadempiente, che a quelle (pur scomode) procedure avrebbe dovuto sovrintendere più puntualmente. La linea difensiva usata in queste ore da molti atleti (LEGGI QUI) fa riferimento al passaggio dal sistema cartaceo a quello informatico per il trattamento delle informazioni sulla reperibilità, ciò che avrebbe creato una dispersione dei dati. Se davvero fosse questo il motivo, si tratterebbe al tempo stesso di un’attenuante per gli atleti e di un’aggravante per Fidal e Coni. E allora, presidente, di chi sono le colpe del difetto di procedura?

    C’è da scommettere che questo episodio sia il pretesto per lanciare un’altra campagna di dissenso contro il sistema del Whereabouts, già in passato accusato d’essere troppo limitante della libertà personale degli atleti. Un’accusa scagliata in un tempo che vede tutti noi costretti a rinunciare a quote della nostra libertà personale per ragioni di sicurezza. E sarà dell’altro chiasso, che produrrà dell’altro silenzio sul modo in cui il sistema sportivo di questo paese fa applicare le norme antidoping. Perché il punto della questione sta tutto in un interrogativo: è così difficile, per la Fidal, fare in modo che un gruppo di propri tesserati ottemperi a un regolamento e a una procedura antidoping? E da questo interrogativo possono sorgerne altri, fra cui il principale è: qual è la situazione delle altre federazioni sportive italiane in materia di controlli antidoping a sorpresa? Sarebbe interessante avere risposte a queste domande. Senza respingere accuse mai rivolte né fare quadrato attorno a una federazione sportiva palesemente inadeguata.

    Pippo Russo 
    @pippoevai

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