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    La triste parabola di Rinat Dasaev: da 'Cortina d’Acciaio' a vagabondo

    La triste parabola di Rinat Dasaev: da 'Cortina d’Acciaio' a vagabondo

    • Adrienrabiot, da VXL
    I mondiali di calcio in Russia sono ormai all’epilogo, con l’inaspettata finale di domenica tra Francia e Croazia. Tutte le grandi Nazionali sono cadute, quindi vuol dire che noi italiani abbiamo “gufato” bene! Tra le centinaia di interviste, servizi di approfondimento, presentazioni, curiosità, etc.. , che fanno da contorno all’evento in questione, una mi ha colpito particolarmente. Dopo le prime due giornate del torneo, è stata chiesta una disamina sui portieri visti all’opera fino a quel momento ad un esperto del ruolo: Rinat Dasaev, ex capitano e numero uno della nazionale sovietica. L’intervista lascia il tempo che trova. Tanto è vero che incensava di gloria solo Buffon e Cech (tra l’altro entrambi assenti nella manifestazione), considerando gli altri visti tutto allo stesso livello, nessuno che si distingua dagli altri per talento e qualità. Al di là del contenuto e delle parole, il suo sguardo malinconico mitigato da un velato sorriso, ed un accenno ad alcuni seri problemi di alcolismo, mi dicevano che la sua storia andava approfondita e raccontata. Una vita fatta di ascesa, discesa, dramma e riscatto.

    Per i più giovani il suo nome non dirà nulla, mentre per gli ultraquarantenni di oggi è quasi un’icona anni ’80. Considerato tra i migliori esponenti del suo ruolo, conquistò l’appellativo di Cortina d’Acciaio, in richiamo agli episodi geopolitici del periodo. Longilineo, reattivo, efficace, taciturno, Dasaev si fece conoscere in tutto il pianeta ai Mondiali del 1982 giocati in Spagna. Tendeva spesso a parare con la mano più lontana rispetto al pallone durante il tuffo,  la cosiddetta “mano di richiamo”, in uno stile simile a quello di Franco Tancredi. Sapeva comandare in modo eccelso la propria difesa ed era molto abile nel rinvio con le braccia, con cui faceva ripartire velocemente l'azione: riusciva infatti a scagliare rilanci potenti e precisi in direzione delle punte, trasformando così ogni palla innocua in possibile contropiede.

    Le altalenanti vicissitudini di Dasaev iniziano sul finire degli anni 50, precisamente il 13 giugno 1957, ad Astrakhan, la sua città natale,  crocevia verso l’Oriente sul Mar Caspio nella Russia meridionale, a due passi dal Kazakistan. Figlio di una famiglia operaia di etnia tartara, il piccolo Rinat cominciò a coltivare l’amore per lo sport sin dall’infanzia. Sarebbe forse diventato un campione di nuoto, se non avesse scelto di dedicarsi al calcio. Gioca centrocampista, sognando di diventare attaccante, ma finisce in porta quasi per caso data la sua altezza e agilità e la mancanza di un estremo difensore. Diventerà il numero uno tra i numeri uno: cinque volte miglior portiere dell’Urss, poi il più forte d’Europa e del mondo, vantando numerose apparizioni nelle classifiche del pallone d’oro di quegli anni.  Esordisce nella squadra locale, il Volgar Astrakhan e, nel 1977, ventenne, passa in uno Spartak Mosca, la squadra del Partito Comunista, umiliato dalla retrocessione nella Serie B. Funzionava così nell’Unione Sovietica: si giocava prima nella propria regione, poi i responsabili sportivi del Pcus si andavano a prendere i ragazzi più promettenti dalla periferia per portarli al centro, per farli studiare, allenare ed educarli. I più bravi in Nazionale. Il 1979 segnò la definitiva esplosione di Rinat Dasaev, risultando di gran lunga il miglior giocatore dei moscoviti. Grazie alle sue parate, la formazione della Capitale si laureò campione dell’Unione Sovietica dopo un memorabile testa a testa con la Dinamo Kiev, allenata da Valerij Lobanovski, grande avversaria dello Spartak: «Erano partite fuori dall’ordinario – racconta nel 2006 alla Pravda – per noi qualsiasi partita contro di loro era come se fosse l’ultima della vita e quando vincevamo era come se avessimo vinto la coppa del mondo». La sua squadra è protagonista – passaggi brevi e ravvicinati, calciatori che si scambiavano il ruolo: una via di mezzo fra l’Ajax di un tempo e il Barcellona moderno - , rimanendo per lunghi periodo con la porta inviolata, ma spesso deve accontentarsi della piazza d’onore (arriva seconda in cinque occasioni) per poi riconquistare il campionato nel 1987. Il 5 settembre 1979, in un’amichevole con la Germania Est, arriva la prima presenza in Nazionale, il cui ct Konstantin Beskov era anche suo allenatore allo Spartak. Nonostante la grande delusione dell’Olimpiade di Mosca ’80 - l’edizione del boicottaggio americano -, a cui tutto il popolo sovietico teneva particolarmente, che vide la Nazionale dell’Unione Sovietica di calcio costretta ad accontentarsi della medaglia di bronzo, in breve tempo tutti notano il talento di questo portiere, tecnico e freddo, tanto che venne naturale il paragone con il leggendario numero uno russo Lev Jashin, unico estremo difensore a vincere il Pallone d’oro (nel 1963). Ecco che cosa tocca a Dasaev: diventare il nuovo Jashin, l’erede del mito e simbolo di un’intera Nazione. Bisognava assumersi la responsabilità politica prima di quella sportiva. “Dobbiamo essere contenti di come veniamo trattati – disse qualche anno dopo Dasaev – abbiamo una casa e una macchina. Abbiamo un rimborso spese di 400 rubli al mese (800 mila lire all’epoca), quando un ingegnere nucleare ne prende al massimo 100”. In una intervista degli ultimi anni dirà: "C'erano tanti giocatori di talento. Nel nostro campionato non c'erano stranieri e nemmeno quei contratti milionari che oggi deprimono i calciatori: si giocava per la gloria dell'Urss e per amore del calcio, non per i soldi".

    Per quasi due anni Dasaev non perde neanche un incontro in nazionale, collezionando 14 vittorie e 5 pareggi tra il 26 marzo 1980 e il 14 giugno 1982. Quest’ultima data, pur coincidendo con la sconfitta dell’Unione Sovietica all’esordio nei Mondiali di Spagna, fa conoscere al mondo il numero uno sovietico a Siviglia, città che tornerà a incrociare il suo destino anni più tardi. Il portiere russo è assoluto protagonista, un'autentica saracinesca, di un match contro il Brasile in cui l’Urss, passata inaspettatamente in vantaggio al 34’ per una papera del "disastroso" portiere Valdir Peres, dovette fronteggiare per un’ora gli attacchi tambureggianti di Junior, Zico, Falcão, Eder e Socrates. Con delle autentiche prodezze di questi ultimi due, negli ultimi 15 minuti i funamboli verdeoro agguantano il successo, nonostante le parate di Dasaev: bolide da fuori area, dopo aver seminato un paio di difensori, per il «medico» della «democracia corinthiana» e bomba di controbalzo per Eder, dopo il velo di Falcao.  Altra caratteristica del tartaro è stata quella di subire gol di rara bellezza: per sfortuna, forse, o più probabilmente per merito. L’Unione Sovietica superò il primo turno e approdò nel successivo girone dei quarti di filiale con Polonia e Belgio, dove solo una differenza reti sfavorevole le impedì di affrontare l’Italia in semifinale.

    Dasaev divenne “La Cortina di Ferro” e fu unanimemente riconosciuto come il miglior portiere del Mundial, insieme al nostro Zoff, capitano degli azzurri campioni, che alla vigilia della finalissima di Madrid osservò: «Mi sembra che il miglior portiere sia stato il sovietico Dasaev per lo stile e l’eleganza dei suoi interventi. Se continua così sarà uno dei maggiori protagonisti della scena internazionale nei prossimi anni». Proprio in virtù di questi successi internazionali, a lui toccò anche il premio di calciatore sovietico dell’anno. Poco dopo Rinat si sarebbe sposato con Nela, un’ex campionessa di ginnastica conosciuta all’ospedale, dove entrambi erano ricoverati per un infortunio, con la quale successivamente avrebbe avuto una figlia.  Tutto Perfetto.

    Il mondo lo ammirò di nuovo a Messico ’86. L’URSS, allenata stavolta dal colonnello Valéry Lobanovsky, nonostante si dica che giochi il “calcio del 2000” - quel sofisticato sistema che, per automatismi, organizzazione, preparazione fisica (tre allenamenti al giorno) e velocità, ricordava un po’ il “calcio totale” dell’Olanda di qualche anno prima - si ferma agli ottavi di finali, battuta 4-3 ai supplementari dal Belgio, dal caldo asfissiante di Leon e dagli errori arbitrali: «In Messico fummo traditi dagli arbitri – ha raccontato l’ex portiere russo durante un’intervista a “Repubblica” – per negligenza o con intenzione, non si accorsero che due gol del Belgio erano in fuorigioco». Dasaev è ormai una stella del calcio internazionale anni ’80, in un’epoca in cui abbondano portieri di valore: basti pensare a numeri uno come Zoff, Shilton, Schumacher, Pfaff, Bonner, Mlynarczyk, Bento, N’Kono, Zenga, Bats e Preud’homme.

    E’ sempre stato un seguace del governo, Rinat. Eseguendo alla lettera gli ordini che arrivavano dall’alto: zitto quando serviva il silenzio, davanti ai microfoni per parlare a nome di tutti quando gli veniva chiesto, compiacente con il Partito e col sistema, sia prima sia durante la nuova rivoluzione cominciata nel 1985 con Michail Gorbaciov, fedele alla linea della chiusura verso il resto del mondo prima e all’apertura poi. Al servizio. Così è diventato il simbolo per milioni di sovietici. Subito dopo la Coppa del Mondo il governo gli consente di andare negli Stati Uniti, cosa che fino ad allora non era stata mai concessa a nessun sovietico, scendendo in campo a Pasadena, in California per la partita America- Resto del Mondo a favore dell’Unicef. L’inizio del cambiamento, usato dal nuovo corso sovietico come protagonista, un ambasciatore e uomo immagine. L’anno successivo, il 10 dicembre 1987, Rinat arrivò a Milano per festeggiare la sponsorizzazione da parte dell’Ocrim di Cremona delle sei squadre di club sovietiche impegnate nelle Coppe Europee. Venne per presenziare all’accordo economico, ma soprattutto a testimoniare che la perestrojka arrivava anche nello sport, con la possibilità per l’espatrio dei calciatori, con la trasformazione in professionisti. Le novità le aveva volute direttamente Gorbaciov, convinto che lo sport fosse il mezzo giusto per la sua rivoluzione.  Le squadre straniere dovevano intavolare le trattative con la federazione sovietica e con il ministero dello Sport. Niente trasferimenti per chi aveva meno di 28 anni, possibilità per i più vecchi. 

    L’Europeo del 1988 vede l’ “Armata Rossa” come una delle favorite, con una squadra che poteva contare su molti giocatori di talento, come Belanov, Zavarov e Protasov, una delle migliori selezioni di sempre della storia russa. Superato il girone iniziale senza problemi, si sbarazzarono dell’Italia in semifinale per ritrovarsi in finale con l’Olanda che avevano già battuto durante il torneo continentale.  Era il 25 giugno del 1988, Olympiastadion di Monaco di Baviera. Qualcosa non funzionò tra i sovietici: partita brutta, squadra in riserva di energie e poco ispirata. Prima Ruud Gullit di testa, poi Marco van Basten, con quella famosa fucilata al volo di destra da posizione defilata, mise a segno il definitivo 2-0 che permise agli 'oranje' di vincere il primo, e unico finora, trofeo continentale. Parziale consolazione, per Dasaev, il premio quale miglior portiere dell’anno assegnatogli dall’Istituto Internazionale di Storia e Statistica del Calcio. Quello di Marco Van Basten contro l'Urss è uno dei gol più belli mai realizzati nel corso di un Europeo di calcio. Una rete indimenticabile per chi ama il calcio. "Ricordo quel gol, mi sentii umiliato - ha dichiarato l'allora portiere dell'Urss Rinat Dasaev in un'intervista recente  -, ma a dirla tutta Van Basten ebbe fortuna: calciò il pallone lungo una traiettoria che non pensavo potesse centrare la porta". Non era fortuna,  Van Basten rendeva possibile l’impossibile... ma questa è un altra storia! Sta di fatto che quel gol segnerà il declino di Dasaev la fine di un’era sia sportiva che politica. Come quella parabola impossibile scendeva per andare in porta, anche la vita di Rinat cominciava la sua fase di discesa. Dopo Euro ’88 la sua popolarità è alle stelle. Dasaev approfittando della glasnost e della perestrojka riesce a trasferirsi in Spagna grazie a uno dei quattro freeway (una specie di lasciapassare) concessi dal ministero dello Sport sovietico, lasciando moglie e figlia in Unione Sovietica. Firma con il Siviglia (la città dove si era fatto notare al mondo, contro il Brasile, nell’82), che lo acquista in cambio di 180 milioni di pesetas (circa un milione di euro attuale) che vanno al governo sovietico, mentre l'ingaggio mensile del portiere è fissato a 150mila pesetas (circa € 900 odierni): le briciole consentite dalle regole del professionismo a metà voluto dal Cremlino.

    La prima stagione furono più ombre che luci; meglio andarono le cose nella seconda, quando aiutò la squadra a raggiungere un buon piazzamento UEFA. Ma solo raramente si rivelò decisivo come quando indossava la casacca dell’Unione Sovietica. Dal freddo di Mosca al sole dell’Andalusia: tutto stava cambiando, nella vita di Dasaev. Anche la famiglia che lo aveva raggiunto torna presto in patria perché lo stipendio del portiere non basta a mantenere i tre nel paese iberico.

    Fa in tempo per essere convocato per Italia ’90, nonostante i “migranti” non erano visti di buon occhio da Lobanovski. Dopo un esordio infelice contro la Romania finisce in panchina. Sarà la sua ultima partita in Nazionale e per beffarda coincidenza, anche l’unica senza la storica scritta "CCCP" sulla maglietta, poiché il ministero dello Sport sovietico aveva deciso di eliminarla. Segnale che ormai, per il gigante dai piedi d’argilla, si era alla fine di un’epoca. Quelle quattro lettere erano state l’emblema di un mito che pareva restare eterno. Quelle che hanno sempre spaventato, quelle che quando le vedevi sapevi subito che dietro quella squadra c’era una potenza. Ostentate, sempre. Non c’erano più. Non sarebbero più tornate. Negli spogliatoi parlò soltanto Dasaev: “Sapevo che qualcuno avrebbe fatto questa domanda. Non so perché le nostre divise non hanno più la sigla. Ce le hanno date così, penso che sia stata una decisione del ministero dello Sport. Grazie”. La politica prima del calcio.. ancora. La Perestrojka che l’aveva lasciato emigrare in Spagna alla fine è stata la sua condanna. Anni dopo dirà: "Ci scontrammo con uno stile di vita completamente diverso dal nostro. Fu uno shock. Io e Vagiz Khidijatullin andammo a giocare in squadre mediocri la cui massima aspirazione era qualificarsi per una coppa europea. Fu deprimente. Sono contento però di esser piaciuto ai tifosi.". Le cose al Siviglia gli vanno sempre peggio. Dopo l’estate del 1990 non gioca più gare ufficiali finendo fuori rosa a causa del regolamento che all’epoca prevede l’impiego al massimo di tre calciatori stranieri (sono Zamorano, Polster e Bengoechea). Allo scadere del suo contratto, il 30 giugno 1991, viene lasciato libero. Pochi giorni più tardi, la mattina del 6 luglio, rimane coinvolto in un incidente stradale sulle strade di Siviglia, ferendosi a una mano e alla testa. Oppresso da depressione e alcolismo, a neanche 34 anni si ritira dal calcio giocato, con la carriera e la vita personale in frantumi. Rientrerà in patria, ma tornò in una casa che non c’era più, nulla era più come prima: il Muro di Berlino era stato abbattuto, i regimi comunisti stavano crollando, mentre la Perestrojka di Gorbaciov non era riuscita a ridare vita a un modello economico e politico ormai agonizzante, il tentato colpo di Stato, Boris Eltsin. Un secondo incidente d'auto a Mosca, sempre causato dall'alcool, lo farà finire in rianimazione, e dopo un lungo periodo di riabilitazione sarà abbandonato dalla moglie e la figlia. Decide così di tornare in Spagna, ma dopo una fallimentare esperienza come commerciante di articoli sportivi si ritrova in grave disagio economico, in quanto col pallone non ha mai guadagnato nulla oltre i rimborsi spese. Così dettava il socialismo. Per anni non si avranno sue notizie, finché non viene rintracciato dalla Pravda: si scopre che Dasaev,  il monumento, il guardiano della Perestrojka, ha vissuto per una decina di anni in uno stato di indigenza, come un vagabondo. In Russia un amico dello Spartak Mosca lo aiuta a tornare nel mondo del calcio, salvandolo dall'alcol e dalla depressione.

    Ieri come oggi l’alcool è un problema, un vizio diffusissimo nella nostra società: molte persone stanche e depresse provano ad annegare i loro problemi nell’alcool, ma senza successo. Siamo nel pieno di una crisi economica ma soprattutto di valori. Ognuno di noi si sente più disorientato, si trova più stressato, affaticato e stanco e, in cerca di una soluzione ai propri problemi, si ritrova più debole di fronte a certi vizi. La cosa più grave è che già i ragazzi all’età di soli 13 anni iniziano a bere. Molti ragazzi bevono per mettersi alla prova, per cercare di superare i propri limiti, per amplificare il divertimento senza alcuna regola o, solo perché hanno difficoltà nel relazionarsi fra loro, per sentirsi più grandi e per assumere un ruolo importante in un gruppo. L’alcool ti da una illusoria sensazione di potenza, quella potenza che non hai e che vorresti avere nella vita di tutti i giorni, ti fa diventare affascinante, fiducioso delle proprie potenzialità, bello, unico. Poiché è legale molti ragazzi sono sicuri che bere qualche bicchierino non faccia male. Quando si è molto giovani non si è mai veramente consapevoli dei propri limiti: dal volere provare a bere solo per gioco, a sviluppare una dipendenza, il passo è davvero breve.  Una volta entrati nel tunnel della dipendenza, non si riesce a smettere di farne uso, perché “la bottiglia” diviene mezzo di fuga dalla realtà e dalle responsabilità, modo per dimenticare gli insuccessi, per aumentare l'autostima e per diminuire il vuoto dentro di sé che potrebbe essere provocato da problemi familiari o di altro tipo. Le conseguenze dell’alcool sono molto spesso mortali e le vittime sono numerose. Delle stragi del sabato sera sono piene le cronache. Una banale serata fra amici può trasformarsi in una tragedia. L’alcolismo può diventare una vera e propria malattia che col suo progredire ti fa perdere ogni ritegno e decoro, ti fa trascurare la famiglia ed il lavoro: si ricorre a qualsiasi mezzo - anche illecito - per saziare la propria incessante brama del bere e si precipita sempre più nell’oscorità. Il vagabondaggio, l’accattonaggio e il delirio, sono le ultime tappe della progressiva degenerazione morale dell’alcolista.  Fortunatamente Dasaev, anche all’aiuto degli amici, è riuscito ad uscirne. Oggi insegna ai ragazzi delle giovanili dello Spartak ed è felice. Ha subito il pallonetto che ti fa la vita, più che un avversario. È caduto, ma è riuscito a rialzarsi.

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