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    La stanchezza di essere Mazzarri

    La stanchezza di essere Mazzarri

    • Marco Bucciantini
    Molti pareggi, quasi tutti per l’incrocio di debolezze, squadre che vorrebbero ma non possono (non ancora). Così le tre vittorie della domenica fanno più chiasso, fanno più classifica. Il Napoli può tornare a condividere i suoi guai e le sue lacune con le altre, ritrovate nel gruppo: mette a profitto una partita avara, dopo aver perso recite molto più grasse. Ma nei periodi di stenti si ricomincia anche così. La Sampdoria può mettere da parte qualcosa che prima o poi servirà, il terzo posto è fondato sulla tenuta difensiva (un solo gol subito) e su circostanze che già denunciammo: la povertà del gioco offensivo di molte squadre: quelle prive di giocatori di classe in avanti, e quelle timide nel prendere rischi con molti uomini. La Sampdoria è terza (e imbattuta) con appena 4 gol segnati in 5 match: in media, meno di uno a partita. I derby spesso si logorano e consumano in lotte a tutto campo, in continue proteste, e sprechi di energie nervose senza costrutto. La differenza è poca, o forse no: è il sinistro di Gabbiadini, che già ci turbò due settimane fa: è una delle cose più pure di questa Serie A. Alcune partite così divorate dalla tensione possono sfuggire dalle ragioni tattiche, non dal talento. E comunque resta un dato da considerare: per ora si segna davvero poco e in generale si va all’arrembaggio con le baionette. Per questo la terza vittoria di giornata è la più clamorosa, anche per le proporzioni. E per le suggestioni: Zeman sembrava ormai la caricatura di se stesso: del suo magnifico modo di vivere il calcio, sembravano rimasti solo i vezzi e i vizi. E invece. 

    Al di là del tifo che anima ognuno di noi, si può anche riconoscere che a San Siro succede il giusto. Il Cagliari fa cose semplici, con tigna e velocità. Attacca su tutto il fronte, sostiene l’azione con gli interni. È una squadra debole fisicamente (a parte Ibarbo e Ceppitelli, pensa un po’) ma pervasa da un’esaltante idea del futuro. Curiosa la battuta di Ranocchia: “Le squadre di Zeman fanno impazzire, vengono avanti con 5-6 uomini…”. Con i tempi di gioco fluidi, ogni squadra dovrebbe attaccare con almeno cinque uomini, soprattutto se gli avversari (come l’Inter) mancano poi di disimpegni rapidi capaci di ribaltare in fretta l’azione. Brutto segno quando la normalità fa eccezione. 

    Mazzarri parla di stanchezza non calcolata, e potrebbe anche aggiungere lo sciagurato Nagatomo, che mutila il suo indefesso e immutabile schema. Tutto vero, plausibile, ma inaccettabile. Bisogna parlar chiaro: le squadre stanche pagano la distanza: l’Inter si sfarina nel primo tempo. Il giapponese fellone era poi uno dei pochi riposati nelle recenti partite e così altri fra i peggiori della domenica. L’Inter soffre problemi banali e complessi: da molti mesi manca la partita che dovrebbe assicurarle una dimensione più robusta. Quando sembra trovare continuità, rinnega se stessa. Una squadra forte è facilitata dall’andazzo: quando vince, va quasi d’inerzia. L’Inter fa il contrario: se è il momento buono, s’inceppa. Questo è un problema di mentalità: dei giocatori, della società che forse non trasmette ambizione, dell’allenatore che vive il suo mestiere con angoscia, e la diffonde. 

    I guai più complessi abbiamo provati a spiegarli molte volte, e dobbiamo tornare sempre lì, al primo settembre, quando ci sembrò ovvio che il mercato non aveva spostato d’un niente gli equilibri dentro il campionato. E ciò che affannava i nerazzurri non era stato riparato: la mancanza di giocatori che con continuità possano allargare le difese, ma non le corse dei terzini, semmai quegli attaccanti bravi a lavorare sui lati: Palacio lo fa per coazione, resta sempre – per mentalità – un finalizzatore. Però almeno ci prova. E poi la lentezza d’uscita del pallone dal disimpegno, l’armonica collocazione dei portatori di palla fra i quali Hernanes andava subito dirottato in compiti di regia. L’Inter attacca piano, dunque lascia naturali spazi. L’Inter porta palla, dunque è facile da prevedere, da braccare, da interdire. E da contrattaccare. L’Inter conosce un solo modo di stare in campo, e appena salta un giapponese, ecco il finimondo, lo smarrimento (per cosa?). Una squadra così forte fisicamente anche se fosse stata fiaccata dalla stanchezza doveva contenere il Cagliari, e cercare pian piano di guadagnare qualche duello, e tirarsi su. Accettare il destino con quell’apatia significa dover ricostruire tutto daccapo: certe sconfitte sono più pesanti di altre, dimostrano una distanza preoccupante da quella forza mentale (spesso più importante di quella fisica) che serve per mirare al terzo posto. 

    Si diceva: almeno l’Inter è solida. Bisogna cambiare argomento, per ora. Domenica a Firenze già si spareggerà per togliersi di dosso il fardello della delusione. Intanto, la Fiorentina trova un’azione promettente, un numero 10 molto giovane (Bernardeschi) riscopre la bellezza della verticalità, e serve “dentro” un numero 9 molto giovane (Babacar): spesso il sapore del calcio si trova in quest’essenza, in questa spremuta: due giocatori, i due ruoli della fantasia dei bambini, due ragazzi fatti in casa, un gol. La manieristica manovra viola e il litigioso ambiente toscano avevano bisogno di una natività per ricominciare qualcosa che è indubbiamente perso, e non potevano chiedere di più: vediamo se questo seme trova il terreno giusto, ci sono azioni che nel tabellino servono solo a pareggiare un match, ma se sai capirle e coltivarle, valgono di più. Dopo l’intermezzo di coppa,  Fiorentina-Inter: nel giorno in cui tutti guarderanno Juventus-Roma, al Franchi si giocherà per evitare quell’improduttivo senso di inutile che ammanta le annate evaporate troppo in fretta. 

    Il Milan continua a fare cose alterne, ma è la concessione doverosa che si può fare ai progetti. A Cesena ha tenuto meglio il campo rispetto a Empoli, anche perché i romagnoli aspettano più bassi i loro dirimpettai, e così certi imbarazzi della mediana in fase di costruzione sono stati nascosti meglio. È servita anche l’idea di Inzaghi di fornire maggiori punti di riferimento in avanti, con un quartetto d’attacco. Ma restano pur sempre due trasferte propizie passate via senza segnali indiscutibili. È una squadra che chiede ancora qualche partita per essere collocata. L’espulsione di Zapata è l’alibi perfetto per non parlare di un secondo tempo modesto, ma paradossalmente i dubbi restano sul primo tempo, quello oggettivamente dominato: Bisoli (sottovalutato) lascia al Milan gli esterni, dove comunque avrebbe subito nei duelli. Questo dominio rossonero corroborato dalla falcata di De Sciglio e Abate è però stato parzialmente sprecato dall’uso di Honda e Bonaventura sui lati: non è un giudizio di merito (Jack ha giocato bene, ha lavorato in quantità e qualità, e questo Honda di settembre è indiscutibile) ma se quegli spazi fossero stati assecondati da Menez (intruppato al centro, costretto a infiniti e squisiti dribbling – tanto da raccogliere quattro ammonizioni fra gli avversari) o da El Shaarawy, almeno uno dei due, anche solo per alcuni momenti del match, forse l’area di rigore del Cesena sarebbe stata aggredita con maggiore pericolosità. Sono appunti, sono argomenti di discussione per provare a capire come mai di quel bel primo tempo del Milan resta solo un gol su calcio piazzato. Sono sinceramente anche attestati di stima per un tentativo evidente di giocare in modo più veloce, moderno, imprevedibile da parte di Inzaghi: non è un coraggio scontato, spesso nelle grandi squadre si vive di conserva. Approfittare di una stagione dove il vertice è oggettivamente lontano, dove fra la Juventus, la Roma e le altre ci sono tanti punti e tanti campioni di differenza, per praticare qualcosa di nuovo, è lodevole e giustifica anche l’azzardo di un tecnico senza alcun pedigree. E il gioco di misurare la formazione rossonera per quanto sia vicina o lontana dalle preferenze di Berlusconi, con il quale viene torturato Pippo in ogni incontro con la stampa, è francamente noioso. 
     

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