AFP/Getty Images
Inter e Milan, incomplete ma affamate
Il bisogno e la voglia di vittorie di Inter e Milan hanno riempito di gol questa seconda giornata di campionato. E hanno reso ancora più povere le assenze di gol di Napoli e Fiorentina. Tutte queste cose insieme però (e per ora) non graffiano il passo solido di Juventus e Roma, superbe nella tenuta e nella personalità, e ancora un po’ avare nella manovra. Le duellanti dell’ultimo campionato hanno preso tutti i punti che c’erano con prestazioni simili (più tornite in casa, più utilitaristiche in trasferta, con vittorie su autorete). Sembrano viaggiare ancora d’inerzia su quanto di buono ereditato dai tempi recenti: questo è il vantaggio di chi si porta qualcosa di buono dal passato. Allegri e Garcia stanno cercando di costruire qualcosa di nuovo per combattere il logorio del tempo: la Juventus deve incastrare meglio Pereyra in un gioco che finora non prevedeva il trequartista e lasciava quello spazio libero alle corse e alle iniziative dei tre tuttocampisti, Marchisio, Vidal, Pogba. La Roma deve elevare i suoi attaccanti a numeri dignitosi, e infondere coraggio a Destro, che tende alla prostrazione ma che è l’unico che può garantire reti in continuità.
La riscossa di Milano, in attesa di conferme, era tutt’altro che scontata. Le società non hanno potuto assicurare niente più che speranze. Le squadre restano incomplete e allora si tratta di nascondere bene i punti deboli, e lustrare quelli forti. Soldi ce n’erano pochi, l’Inter li ha spesi per irrobustirsi, il Milan per divertirsi. Dopo 180’ tornano entrambi i calcoli. Sentenziare non ha senso, ma vedere e considerare è doveroso: Inzaghi propone un’idea di calcio moderna, ariosa, e trasmette bene la sua incosciente giovinezza (come tecnico). Il canovaccio è confuso da refusi che sembrano più individuali che collettivi (buon segno) e poi c’è Menez. Aveva lasciato a Roma pochi ricordi e pochissimi rimpianti, le sue scorribande a tutto campo e su tutto il fronte sono meriti propri e di chi lo ha scelto, intuendo le possibilità e credendo nelle redenzioni. Ci resta la convinzione che quel modo di giocare e di cercare la profondità dai lati sia diverso dalle preferenze di Torres: se Inzaghi riuscirà ad aggiungerlo nelle rotazioni, i meriti diventeranno enormi. Intanto, senza Montolivo si è ingigantita la parte di De Jong, e l’olandese copre il doppio ruolo di guardia e di regista (spatano) con immenso protagonismo. Altre cose (la tenuta difensiva, la distanza fra i reparti, specie sugli esterni, la personalità dei gregari) verranno valutate meglio a breve: la prossima partita è con la Juventus. Resta viva l’impressione che sia cominciato un lavoro promettente, sostenuto da tutto l’ambiente: allineamento d’intenti che era mancato negli ultimi mesi, sia con Allegri che con Seedorf. E queste sono cose che fanno la differenza.
L’Inter ha fatto il suo comodo. Scriverne bene adesso è perfino ingiusto: oltretutto, con millimetrica replica del destino, contro il Sassuolo ne segnò sette anche lo scorso anno, sembrava cominciare una storia e invece ne fu scritta una assai più umile. Però alcune parti oggi sembrano affidate in modo più certo: Icardi, Kovacic, Hernanes: i tre maggiori investimenti del biennio sembrano essersi impossessati di un ruolo che in campo a volte può anche mutare (Kovacic, per esempio) ma che nell’emotività della squadra è ormai decisivo. Il resto deve paradossalmente diventare minore: il problema era lo scorso anno, quando il gioco passava per la vivacità di Nagatomo. Intanto, la fiera del gol degli attaccanti dovrebbe sedurre Mazzarri e farlo arrendere alla necessità di due punte: attaccanti esterni o trequartisti incursori per addensare diversamente l’area non esistono. E l’azione di Kovacic, o Hernanes, o perfino Guarin deve cominciare lontano dalla porta, laggiù si sentono dominatori del gioco così da seguirlo fino in fondo.
Sulla Fiorentina e il Napoli vale il giudizio steso un minuto dopo la chiusura del mercato quando definimmo con un filo di cinismo sostanzialmente inutile la campagna di rafforzamento. Lo scorso torneo aveva lasciato due squadre con evidenti punti di forza e alcune lacune da poter migliorare. Certo, si trattava di “superare” in valore almeno un paio di titolari per squadra (in mediana e in difesa) e di poter contare su una lussuosa riserva nel reparto d’attacco, il punto di forza di entrambe. Il mercato ha invece “ingrossato” le rose, reso più profondo l’organico ma i migliori restano gli stessi, lì e là, e così i titolari. Al contrario delle milanesi, adesso è più facile vedere i punti deboli: perché ci sono da migliorare posizioni importanti, e perché era più facile colmarli e sembra più colpevole averli trascinati anche in questa stagione. Nella Fiorentina, poi, c’è da sottrarre Rossi e sulla bilancia questa assenza non può ancora essere compensata dalla presenza di Gomez. Da quando manca Pepito, nelle 12 partite casalinghe i viola hanno 3 vittorie, 3 pareggi, 6 sconfitte. La media è di 1 punto a partita: modestissima per qualunque ambizione. Chi vede e incolpa i gol sbagliati contro il Genoa, nega una verità ormai datata. Prima dell’infortunio di Rossi la velocità era esattamente doppia: lui risolveva problemi tattici già evidenti: quella limpida, avvolgente, un po’ scolastica ma meravigliosa manovra di due stagioni fa si è via via consumata per la perdita di alcuni interpreti ideali di quel manierismo calcistico (Ljajic, Jovetic, poi Rossi: tutti comunque capaci di attrarre in avanti quel palleggio), per ripetitività, per conoscenza e contromisure altrui. Oggi, in tutta onestà, la Fiorentina ha smarrito la sua cifra più luminosa: l’identità. Contro il Genoa Montella ha rinunciato per tutto il match a ogni nuovo acquisto: otto panchinari. Al di là di questa silenziosa “protesta”, il tecnico deve incardinare la Fiorentina su alcune certezze tattiche, addirittura filosofiche: insistere sul palleggio e sul possesso palla, anche se quegli attaccanti “braccati” e spalle alla porta sono ridimensionati? Continuare con la difesa a quattro senza terzini di corsa e di cross? E Borja Valero, quante parti deve fare in commedia, finendo per smarrire il copione? Ilicic in quale progetto tattico rientra, con quale ruolo? Cose da chiarire, per non ritrovarsi mezz’ora con la superiorità numerica e nessun attaccante di ruolo in campo. E con il crossatore Pasqual inserito quando non c’erano più colpitori di testa in giro. Certo, c’è poco da farla lunga: servono i gol di Gomez, impossibile e ingiusto chiederli a qualcun altro. E Montella deve impostare una squadra che arrivi al centravanti, dopo due anni in cui il centravanti non c’era. I viola sono un ibrido. Se il più bravo a giocare con il centravanti e per il centravanti è il giovane Bernardeschi, allora si azzardi con lui, senza discuterlo al primo inciampo.
Il Napoli fatica ad afferrare il suo posto nel mondo. Quando deve legittimare le ambizioni, finisce per perdere credibilità. Come a Firenze, ci sono occasioni sprecate che potevano invertire l’umore e i commenti. Invero, la recita del Napoli è maggiore di quella dei viola, ma lo è anche quella del Chievo, più cattivo nei contropiedi: fra il gol di Maxi Lopez e la fine c’è molto tempo che non cura però le conosciute fatiche a velocizzare il possesso palla. E ci sono sempre quelle concessioni agli avversari tali da fortificarli: in questo, Juventus e Roma sono di un’altra pasta, soggiogano gli altri fino a ridurli all’impotenza. Il Napoli ha i ruoli coperti e perfino doppiati da adeguate riserve. Ma il salto di qualità definitivo passava per il miglioramento di almeno uno (meglio due) dei titolari del centrocampo. Inler-Jorginho-Hamsik fanno bene tante cose, e sempre con innegabile applicazione, ma non sono campioni. Non lo è ancora nemmeno Insigne, che ormai si deprime nell’attesa di se stesso. La corsa al primato è veloce e non può attendere chi si attarda a rimediare antichi errori. Il vantaggio di Benitez rispetto a Montella è nella varietà delle soluzioni d’attacco affidabili. Lo svantaggio è nel clima attorno alla squadra. Il calcio non ha memoria, ieri uno stadio intero ha chiesto il conto a De Laurentiis e lui potrebbe girarlo direttamente a Benitez, innestando un circolo vizioso che avviterebbe il Napoli verso il basso.
Chi invece sta spremendo tutto dalla campagna acquisti è Pioli. La Lazio ha dovuto e voluto cambiare molto, e il tecnico si è messo sullo spartito (Djordjevic al posto di Klose). Già a Milano la Lazio aveva occupato bene il campo, ma era sembrata in difetto di soluzioni, anche per una ossessiva attenzione alla dimostrazione, a discapito della fame e dell’estro. Con il Cesena molti duelli sono stati vinti in scioltezza, il campo si è aperto, le trame si sono sviluppate avvicinando alla porta tutto il centrocampo, la voglia ha pervaso molti giocatori, ed è sempre il modo migliore per rafforzarsi. Nei titolari e nelle primissime riserve, la Lazio sembra una bella squadra con molta tecnica e una certa varietà: se si assesta in fretta ed ha salute, non è affatto lontana dal terzo posto.
Mentre l’Atalanta mette già da parte uno scontro diretto, e Zeman regala Ibarbo agli avversari, preferendo tal Farias, il resto della giornata è il bel sinistro di Gabbiadini, giocatore d’altri tempi, di agonismo carente ma di classe nitida, che si accende e si spegne come le lampadine di certi luna park di periferia (questa è di Tom Waits). Quando s’illumina, sa di calcio. Quel sapore si è perso nel Torino: dopo 180 minuti senza gol, chissà cosa ne pensa Cairo della perfetta coppia di attaccanti che Ventura aveva sublimato e che lui ha venduto. Forse i soldi non fanno la felicità, ma sicuramente fanno classifica.
Marco Bucciantini
La riscossa di Milano, in attesa di conferme, era tutt’altro che scontata. Le società non hanno potuto assicurare niente più che speranze. Le squadre restano incomplete e allora si tratta di nascondere bene i punti deboli, e lustrare quelli forti. Soldi ce n’erano pochi, l’Inter li ha spesi per irrobustirsi, il Milan per divertirsi. Dopo 180’ tornano entrambi i calcoli. Sentenziare non ha senso, ma vedere e considerare è doveroso: Inzaghi propone un’idea di calcio moderna, ariosa, e trasmette bene la sua incosciente giovinezza (come tecnico). Il canovaccio è confuso da refusi che sembrano più individuali che collettivi (buon segno) e poi c’è Menez. Aveva lasciato a Roma pochi ricordi e pochissimi rimpianti, le sue scorribande a tutto campo e su tutto il fronte sono meriti propri e di chi lo ha scelto, intuendo le possibilità e credendo nelle redenzioni. Ci resta la convinzione che quel modo di giocare e di cercare la profondità dai lati sia diverso dalle preferenze di Torres: se Inzaghi riuscirà ad aggiungerlo nelle rotazioni, i meriti diventeranno enormi. Intanto, senza Montolivo si è ingigantita la parte di De Jong, e l’olandese copre il doppio ruolo di guardia e di regista (spatano) con immenso protagonismo. Altre cose (la tenuta difensiva, la distanza fra i reparti, specie sugli esterni, la personalità dei gregari) verranno valutate meglio a breve: la prossima partita è con la Juventus. Resta viva l’impressione che sia cominciato un lavoro promettente, sostenuto da tutto l’ambiente: allineamento d’intenti che era mancato negli ultimi mesi, sia con Allegri che con Seedorf. E queste sono cose che fanno la differenza.
L’Inter ha fatto il suo comodo. Scriverne bene adesso è perfino ingiusto: oltretutto, con millimetrica replica del destino, contro il Sassuolo ne segnò sette anche lo scorso anno, sembrava cominciare una storia e invece ne fu scritta una assai più umile. Però alcune parti oggi sembrano affidate in modo più certo: Icardi, Kovacic, Hernanes: i tre maggiori investimenti del biennio sembrano essersi impossessati di un ruolo che in campo a volte può anche mutare (Kovacic, per esempio) ma che nell’emotività della squadra è ormai decisivo. Il resto deve paradossalmente diventare minore: il problema era lo scorso anno, quando il gioco passava per la vivacità di Nagatomo. Intanto, la fiera del gol degli attaccanti dovrebbe sedurre Mazzarri e farlo arrendere alla necessità di due punte: attaccanti esterni o trequartisti incursori per addensare diversamente l’area non esistono. E l’azione di Kovacic, o Hernanes, o perfino Guarin deve cominciare lontano dalla porta, laggiù si sentono dominatori del gioco così da seguirlo fino in fondo.
Sulla Fiorentina e il Napoli vale il giudizio steso un minuto dopo la chiusura del mercato quando definimmo con un filo di cinismo sostanzialmente inutile la campagna di rafforzamento. Lo scorso torneo aveva lasciato due squadre con evidenti punti di forza e alcune lacune da poter migliorare. Certo, si trattava di “superare” in valore almeno un paio di titolari per squadra (in mediana e in difesa) e di poter contare su una lussuosa riserva nel reparto d’attacco, il punto di forza di entrambe. Il mercato ha invece “ingrossato” le rose, reso più profondo l’organico ma i migliori restano gli stessi, lì e là, e così i titolari. Al contrario delle milanesi, adesso è più facile vedere i punti deboli: perché ci sono da migliorare posizioni importanti, e perché era più facile colmarli e sembra più colpevole averli trascinati anche in questa stagione. Nella Fiorentina, poi, c’è da sottrarre Rossi e sulla bilancia questa assenza non può ancora essere compensata dalla presenza di Gomez. Da quando manca Pepito, nelle 12 partite casalinghe i viola hanno 3 vittorie, 3 pareggi, 6 sconfitte. La media è di 1 punto a partita: modestissima per qualunque ambizione. Chi vede e incolpa i gol sbagliati contro il Genoa, nega una verità ormai datata. Prima dell’infortunio di Rossi la velocità era esattamente doppia: lui risolveva problemi tattici già evidenti: quella limpida, avvolgente, un po’ scolastica ma meravigliosa manovra di due stagioni fa si è via via consumata per la perdita di alcuni interpreti ideali di quel manierismo calcistico (Ljajic, Jovetic, poi Rossi: tutti comunque capaci di attrarre in avanti quel palleggio), per ripetitività, per conoscenza e contromisure altrui. Oggi, in tutta onestà, la Fiorentina ha smarrito la sua cifra più luminosa: l’identità. Contro il Genoa Montella ha rinunciato per tutto il match a ogni nuovo acquisto: otto panchinari. Al di là di questa silenziosa “protesta”, il tecnico deve incardinare la Fiorentina su alcune certezze tattiche, addirittura filosofiche: insistere sul palleggio e sul possesso palla, anche se quegli attaccanti “braccati” e spalle alla porta sono ridimensionati? Continuare con la difesa a quattro senza terzini di corsa e di cross? E Borja Valero, quante parti deve fare in commedia, finendo per smarrire il copione? Ilicic in quale progetto tattico rientra, con quale ruolo? Cose da chiarire, per non ritrovarsi mezz’ora con la superiorità numerica e nessun attaccante di ruolo in campo. E con il crossatore Pasqual inserito quando non c’erano più colpitori di testa in giro. Certo, c’è poco da farla lunga: servono i gol di Gomez, impossibile e ingiusto chiederli a qualcun altro. E Montella deve impostare una squadra che arrivi al centravanti, dopo due anni in cui il centravanti non c’era. I viola sono un ibrido. Se il più bravo a giocare con il centravanti e per il centravanti è il giovane Bernardeschi, allora si azzardi con lui, senza discuterlo al primo inciampo.
Il Napoli fatica ad afferrare il suo posto nel mondo. Quando deve legittimare le ambizioni, finisce per perdere credibilità. Come a Firenze, ci sono occasioni sprecate che potevano invertire l’umore e i commenti. Invero, la recita del Napoli è maggiore di quella dei viola, ma lo è anche quella del Chievo, più cattivo nei contropiedi: fra il gol di Maxi Lopez e la fine c’è molto tempo che non cura però le conosciute fatiche a velocizzare il possesso palla. E ci sono sempre quelle concessioni agli avversari tali da fortificarli: in questo, Juventus e Roma sono di un’altra pasta, soggiogano gli altri fino a ridurli all’impotenza. Il Napoli ha i ruoli coperti e perfino doppiati da adeguate riserve. Ma il salto di qualità definitivo passava per il miglioramento di almeno uno (meglio due) dei titolari del centrocampo. Inler-Jorginho-Hamsik fanno bene tante cose, e sempre con innegabile applicazione, ma non sono campioni. Non lo è ancora nemmeno Insigne, che ormai si deprime nell’attesa di se stesso. La corsa al primato è veloce e non può attendere chi si attarda a rimediare antichi errori. Il vantaggio di Benitez rispetto a Montella è nella varietà delle soluzioni d’attacco affidabili. Lo svantaggio è nel clima attorno alla squadra. Il calcio non ha memoria, ieri uno stadio intero ha chiesto il conto a De Laurentiis e lui potrebbe girarlo direttamente a Benitez, innestando un circolo vizioso che avviterebbe il Napoli verso il basso.
Chi invece sta spremendo tutto dalla campagna acquisti è Pioli. La Lazio ha dovuto e voluto cambiare molto, e il tecnico si è messo sullo spartito (Djordjevic al posto di Klose). Già a Milano la Lazio aveva occupato bene il campo, ma era sembrata in difetto di soluzioni, anche per una ossessiva attenzione alla dimostrazione, a discapito della fame e dell’estro. Con il Cesena molti duelli sono stati vinti in scioltezza, il campo si è aperto, le trame si sono sviluppate avvicinando alla porta tutto il centrocampo, la voglia ha pervaso molti giocatori, ed è sempre il modo migliore per rafforzarsi. Nei titolari e nelle primissime riserve, la Lazio sembra una bella squadra con molta tecnica e una certa varietà: se si assesta in fretta ed ha salute, non è affatto lontana dal terzo posto.
Mentre l’Atalanta mette già da parte uno scontro diretto, e Zeman regala Ibarbo agli avversari, preferendo tal Farias, il resto della giornata è il bel sinistro di Gabbiadini, giocatore d’altri tempi, di agonismo carente ma di classe nitida, che si accende e si spegne come le lampadine di certi luna park di periferia (questa è di Tom Waits). Quando s’illumina, sa di calcio. Quel sapore si è perso nel Torino: dopo 180 minuti senza gol, chissà cosa ne pensa Cairo della perfetta coppia di attaccanti che Ventura aveva sublimato e che lui ha venduto. Forse i soldi non fanno la felicità, ma sicuramente fanno classifica.
Marco Bucciantini