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    Inter, i sovradosaggi di Mazzarri

    Inter, i sovradosaggi di Mazzarri

    • Marco Bucciantini

    Mai come in questo campionato tre sole partite sembrano già sufficienti per vederci chiaro: due squadre viaggiano svelte e sciolte, 9 punti, 0 gol subiti. Niente d’impressionante ma un governo pressoché totale delle partite e degli avversari, fino ad accennare il possesso del ritmo e delle emozioni di quanto succede in campo. Nella partita più significativa, la Juventus vince di misura solo perché il Milan capisce e accetta di essere inferiore: si fosse proposto per blasone e naturale ambizione, sarebbe finito male. Così, invece, può rinfrancarsi di un risultato stretto e lottato. Poteva anche pareggiare, il Milan, ma il dato vero è che non poteva vincere. Questi sono i rapporti di forza fra le due squadre: il divario tecnico e fisico a centrocampo (compresi i terzini di appoggio) ha riempito la partita della presenza juventina. Peccato ad Allegri manchi un attaccante esterno per variare qualche volta le trame, e rodare soluzioni differenti: storia vecchia. Così si procede il lavoro fatto da Conte, con saggezza, forse meno ossessione per sfiancare gli avversari e qualche tentativo di  verticalizzazione, per conservare energie. Ma chi insiste nel vedere novità, e calcola di conseguenza, romanza la realtà. Se è un concorso di contributi eccentrici, ecco il nostro: essendo Pogba e Marchisio più bloccati in mediana dall’assenza di Pirlo (difatti concludono dalla distanza, e quasi mai da dentro l’area, nelle loro solite incursioni) e mancando quel satanasso di Vidal, la Juventus è costretta a chiedere più “quantità” agli attaccanti, magari riposandoli nel lavoro ai fianchi delle difese, per incursioni ancora latenti degli altri. Ci sono giocatori che si esaltano nelle responsabilità: così è per Tevez.

     
    La settimana scorsa ci sembrò onesto avvertire che la voglia delle due squadre di Milano era importante per il torneo, insieme decisiva ai loro risultati ma ingannevole: copriva bene i difetti di squadre incomplete. Siccome il sito è ben frequentato, e i dibattiti sono sempre aperti a tutti, leggemmo di repliche che declinavano quell’aggettivo “incomplete” verso un più disilluso “inferiori”, se riferito a Juventus e Roma. Rispondendo qua e là ai lettori, chiarimmo queste lacune: per l’Inter, la difficoltà a girare subito la palla, con il primo passaggio, specie quando gli elementi tecnici si schiacciano sugli attaccanti ed Hernanes fa il fellone (gli succede). Poi, la mancanza di una seconda punta (o punta esterna) capace di variare schema o ritmo contro certe difese chiuse, anche per l’insistenza dei due attaccanti nella sola zona centrale, che toglie possibilità e linee di passaggio e finisce solo per accrescere la già profonda vocazione a portar palla dei centrocampisti. Per il Milan, indicammo una certa deficienza nella profondità dell’organico, e conseguenti duelli persi in alcune zone del campo, e la fragilità complessiva del centrocampo, di livello tecnico meno ambizioso di altri reparti e sicuramente improponibile per gli obiettivi massimi. In più, per tigna, ripetemmo i dubbi sull’inserimento tattico di Torres, ma ancora è questione da valutare a fondo. Le due partite del terzo turno hanno chiarito alcuni di questi ammanchi: poi, ogni aggettivo è buono e non è scontato che il tempo lavori a favore dei tecnici.

    Su Palermo-Inter bisogna restare: tatticamente è stata interessante. Angosciata dall’errore di Vidic e dalla mobilità degli attaccanti del Palermo, così da confezionare un avvio penoso, l’Inter piano piano si è rianimata, fino a possedere il campo. Trovato il pareggio con l’uomo di maggiore senno (guarda un po’: il più giovane del mazzo!), l’Inter ha cominciato a scrivere la trama della partita, con sicurezza ma senza limpidi approdi di una manovra “strappata” dalle superbe vigorie di Guarin, tornato protagonista. Dopo un’ora di gioco, però, gli allenatori hanno messo mano, cambiando il racconto. Per assecondare il dominio del campo, Mazzarri ha aggiunto tecnica con Hernanes (andando in sovradosaggio) e suggestione con Palacio, lontanissimo dal tono agonistico. Così il tecnico ha squilibrato e confuso la squadra, e invero chi è entrato lo ha aiutato a sbagliare (Dodò, questa volta poco e male). Per alzare i suoi, ormai raccolti a ridosso della difesa, Iachini ha fatto lo stesso, inserendo l’attaccante che teneva a sedere, Belotti, andando così a ferire la nuova difesa a 4 dell’Inter, lavorando al centro con il nuovo entrato, inventando dal lato destro con Dybala (grande visione di gioco, e troppa tenerezza in area) e cercando il duello fisico a sinistra, con un Vazquez superiore a Nagatomo nella lettura della manovra, tanto da essergli in netto anticipo in tre occasioni, variamente mancate. Il Palermo ha ritrovato la partita, l’Inter l’ha smarrita ma non persa, e infatti ha avuto l’ultima occasione, con Osvaldo. 

    L’appunto più importante e generalizzabile dei novanta minuti in Sicilia è quello sugli attaccanti. Ed è un discorso che sorvola il loro valore specifico e quello delle loro squadre. Il Palermo è riuscito a farli lavorare insieme, ogni cosa nasceva da sincronie fra Dybala e Vazquez e poi Belotti, movimenti e scambi, palla a terra e palla alta. I due dell’Inter non hanno fatto niente assieme: in questo è sovrana anche l’indole di Osvado e Icardi, e più difficile sarà lavorarci con profitto: li governa un modo egoriferito di vivere la partita, e il bilancio sarà fatto su quanto le qualità (notevoli) produrranno al capitolo dei gol (di assist, pochi): con il Sassuolo fu un pomeriggio godereccio, ma nelle due trasferte, per ora, niente.
    Le due partite adocchiate nel lungo pomeriggio andavano nello stesso solco: la Roma ha disposto in fretta del Cagliari, per la perfetta fusione degli elementi d’attacco: i movimenti, la visione, la diversità. Certo, la linea difensiva di Zeman incoraggia, e il centrocampo della Roma – anche se rimaneggiato, produce d’inerzia – ma Garcia possiede sei attaccanti che completano lo spettro, e li turna secondo necessità, condizione, avversario, e con loro trasforma vagamente la squadra, che per altro va avanti solida e robusta su antiche e giovani certezze (Manolas ha il medesimo senso dell’anticipo di Benatia, e questo serviva per ripartire in fretta nell’azione). Nessuno dei giallorossi sommerà numeri straordinari, proprio per questo impiego a singhiozzo (Gervinho gioca di più, ma non è goleador). Ma gli attaccanti sono tutti ingranaggi capaci di favorire la manovra prima di esserne avvantaggiati. Un’ora dopo era invece il momento della Fiorentina e lasciava impressioni opposte: Cuadrado, Ilicic e Gomez non riuscivano a organizzare nemmeno un’azione in comune. Singolarmente, sembrano incastri di un tetris perfetto: il centravanti di presenza e continuità, l’ala dribblomane e ficcante, il trequartista tecnico dalle giocate improvvise. Eppure i tre non s’incastrano, non ancora. Colpa di un gioco che scorre ancora un po’ lento, fino a trovarli sempre marcati, anche se ieri Montella ha cambiato, cercando strade nuove. Meno possesso palla, più ricerca dell’interdizione (e infatti statistica nuova per i viola: hanno commesso il doppio dei falli subiti, quando di solito era il contrario), voglia di ripartire più in fretta, anche senza palla, per nascondere la mancanza del regista (Pizarro) e del palleggiatore tuttocampista (Borja Valero). Il noviziato di Badelj ha complicato il progetto, ma resta quell’obiezione di coscienza dei tre attaccanti al lavoro d’insieme. Per fortuna di Montella, Kurtic è indovinato per questo nuovo modo di aggredire il campo: che poi segni, e subitissimo, è incanto calcistico. Per sfortuna di Colantuono, la migliore Atalanta del mese si è dispersa nella giornataccia di Denis, quando Boakye sembrava invece ispirato (mai quanto Neto, però). Al netto delle occasioni, la Fiorentina ha giocato peggio che con il Genoa, ma è un calcolo fasullo: ha saputo soffrire, proprio perché meglio disposta dal suo tecnico alla lotta. Così ha trovato i punti. Quelli che ancora mancano alla Lazio, che per ora è uno studente modello e sembra coprire il campo con bravura accademica, fino al dominio. La traduzione dell’esercizio in pratica è sempre un momento sfuggente e passa anche dalla personalità dei giocatori: quella collettiva è evidente, e piacevole. Al dunque, l’unico che “vuole” la vittoria, i gol, i tiri sembra Candreva: Pioli deve recuperare il carisma e la sensibilità agonistica di Klose e Mauri, oppure trasmettere quei cromosomi agli altri studenti-modello. Ieri, gli infortuni prematuri dei difensori non hanno permesso al tecnico di intervenire con i cambi, e tanto potenziale è rimasto inespresso. De Vrij per ora è il Franti della scolaresca: va detto.

    Altri appunti: Cassano e Coda ci avevano avvertiti verso l’ora di pranzo che due attaccanti – se fanno insieme – possono invertire una partita. Il mattocchio barese può fare a piacimento, in questa Serie A, ma la sua migliore dote (la visione di gioco negli ultimi metri di campo) è sublimata dalla presenza di un compagno capace di addensare l’area e muoversi per entrambi. Massimo Coda è una biografia del nostro calcio impazzito. Da Cava de’ Tirreni emigra in Svizzera, mette da parte qualche gol, per questo lo compra 20enne il Bologna ma non lo fa giocare (però in compenso in questo sprofondo mostra goleador del calibro di Acquafresca, Moscardelli…). Coda lascia altri gol a Cremona, perfino a San Marino, dunque lo compra il Parma per pochi soldi, nelle solite ammucchiate estive dei ducali, con campagne acquisti-cessioni da 200 transiti l’anno, e poi lo gira in stock al Gorica, in Slovenia, assieme a un’altra mezza dozzina di giocatori. La squadra balcanica è una delle 4 consociate che il Parma usa come deposito: a Nova Gorica allena Apolloni, una vita in Emilia. Lì, Coda segna tanto, viene eletto miglior giocatore del campionato, torna a Parma con i suoi argomenti, e li mostra. 
    Una coppia perfetta, che finiva per giocare insieme anche se entrambi muovevano per conto proprio, ce l’aveva il Torino ma Ventura è esasperato dal ricordo di Cerci e Immobile, e infatti dice, dopo la terza partita senza gol (unica squadra): “Quando arrivarono qui, non erano quelli che poi sono diventati”. Lo dice sperando di destare Amauri e Quagliarella, che qualche numero in canna ancora dovrebbero averlo, ma i bisogni hanno scadenze più brevi dei sogni. Il Torino è vittima di se stesso (due rigori sbagliati sono tanti punti in classifica), dei suoi ricordi e dell’avidità del suo presidente ma è sembrato finalmente coraggioso in una ripresa di orgoglio e corsa. È andata male, andrà meglio. 
     


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