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    Europa League basta snobismi, adesso vincerla é necessario

    Europa League basta snobismi, adesso vincerla é necessario

    L’Italia della Champions è dunque all’osso: due squadre, la metà dei tre campionati ormai più competitivi del continente, tornei dai quali sono uscite le squadre vincitrici delle ultime tre Champions e anche delle ultime tre Europa League: per dire che non c’è dubbio ormai gerarchico, Premier, Bundesliga e Liga sono decisamente campionati di livello superiore. Meglio dell’Italia anche il Portogallo, con 3 squadre, e questa è una verità più difficile da accettare ma le squadre dell’estremo ovest europeo hanno “pianificato” e non certo usurpato questo ruolo. Vale, per i portoghesi, l’impegno e la forza dimostrati nella seconda competizione continentale, l’Europa League, dove nelle ultime quattro edizioni hanno bazzicato la finale con il Porto (vincitore), il Benfica (due volte sconfitto) e il Braga (sconfitto dal Porto, nel 2011). Da quando la competizione si è ingrandita, per l’accorpamento di due vecchi trofei, la Coppa Uefa e la Coppa delle Coppe, dunque dell’edizione del 1999-2000, l’Italia ha invece disertato tutte le 15 finali. All’ultima partita sono arrivate 23 squadre in rappresentanza di 10 nazioni. Gli iberici vi si sono dedicati con profitto (8 finaliste spagnole e 7 portoghesi), ma 5 volte è toccato alle squadre inglesi (anche il Middlesbrough, anche il Fulham…), 2 volte alle "solite" Scozzesi (Celtic e Rangers), 2 volte alle tedesche e alle russe, poi sono arrivati in fondo gli ucraini dello Shakthar, i turchi del Galatasaray, i francesi del Marsiglia.

     

    Un’introduzione un po’ lunga e didascalica, ma ripassare serve a conoscere meglio la storia, e conoscere la storia è l’unico monito che abbiamo per incidere sul presente. Attanagliato da manie, ambizioni e necessità e perfino retaggi di grandezza, il calcio italiano ha preferito in questi tre ultimi lustri vedere solo la Champions e solo lì sentirsi realizzato. Un doppio errore di valutazione che ha mortificato un intero movimento e non ha saputo considerare le crescenti difficoltà a competere con le maggiori squadre continentali: niente di male, periodi meno felici capitano, il calcio (come tante cose) è ciclico. Ma proprio in questi momenti la cosa più saggia - e giocoforza a lungo andare anche più conveniente - è cercare di competere e vincere al livello più basso. Questa attenzione ci avrebbe permesso oggi una tenuta migliore anche in Champions. Non solo.

    La forza del calcio "medio alto" è sempre stata il sintomo della robustezza e della competitività dei tornei e quando siamo stati protagonisti, quella era la cifra del valore della nostra Serie A. Nel momento d’oro la Coppa Uefa e la Coppa delle Coppe erano terre di conquista. Avvenne dalla riapertura delle frontiere alle follie delle "sette sorelle": così, scimmiottando l’epoca della nascita della dittatura arabeggiante nel petrolio, venne inquadrata la Serie A di fine millennio, che tanti disastri economici ed etici provocò (e ancora ci lecchiamo le ferite). Prima della sbronza, dei fallimenti, del carcere (per tre proprietari), di calciopoli e di quant’altro, quei tornei erano stati comunque indicativi. Lì si consolava la Juventus prima di arrivare al trofeo più ambito. Lì si affermarono realtà come la Sampdoria poi scudettata, il Parma di Scala, lì vinsero la Lazio di Cragnotti e prima ancora il Napoli di Maradona. E arrivarono al dunque anche Fiorentina, Roma, Torino… (le prime due battute in finali-derby, addirittura, e comunque proprio in quest’ambito trovarono i loro unici successi europei, negli anni sessanta). L’Inter ne vinse tre: in quindici anni, 9 squadre in finale (e il Milan disinteressato solo per l’assidua frequentazione delle finali di Coppa Campioni-Champions League). La Serie A era questo: un torneo dove molte squadre avevano un valore europeo, e questo prestigio era cercato anche nelle due competizioni "marginali" comunque decisive nell’affermare un marchio, quello del campionato più bello e difficile del mondo.

    Prima dell’allargamento dell’avvento della Champions, vincere la Coppa Uefa era davvero un’impresa in alcune annate superiore alla vittoria in Coppa Campioni: quest’ultima per molti decenni (quando Urss e Yugoslavia compattavano molte nazioni odierne) s’avviava dai sedicesimi di finale, con l’accesso ridotto alla sola vincitrice del campionato. In primo turno, capitavano anche le squadre islandesi, cipriote, maltesi: erano vendemmie. La competitività di questo calcio di frontiera era allora risibile. Sostanzialmente i turni tosti erano tre, dai quarti in avanti, dunque 5 partite. Basta dare un’occhiata al cammino della Juventus nel 1984-85, prima della drammatica vittoria dell’Heysel contro il Liverpool: primo turno coi finlandesi del Tampere, poi gli svizzeri del Grasshoppers, quarti con lo Sparta Praga e semifinali con il Bordeaux. La Juventus di Lippi, qualche anno dopo, per raggiungere le 4 finali di Champions dovette invece compiere imprese di immenso livello.

    L’Uefa invece cominciava da 64 squadre, anche fra queste c’era da sgrossarne una decina da dopolavoro ferroviario, ma poi restava la polpa dei tornei europei perché comunque dalla seconda classificata alla quarta/quinta/sesta a seconda del ranking, e al netto della Coppa delle Coppe, si andava in questo mega torneo. Che fu nostro, molte volte, anche - appunto - con finali tutte italiane. E bene vi fece anche il Cagliari di Giorgi. E nella competizione delle vincitrici delle Coppe nazionali fu splendida anche l’Atalanta di Mondonico (semifinalista).


    Adesso si tratta di capire il verso delle cose. Perché la prima obiezione è quella utilitaristica: le squadre italiane non funzionano più in queste competizioni perché il livello della Serie A è basso. E non viceversa. Eppure il discorso è troppo cinico, avaro di quelle possibilità che offre invece un’interpretazione più tenace: l’Italia snobba l’Europa League per ritrosia culturale e mancanza di programmazione sportiva. Nell’infinito elenco delle squadre citate in apertura, le 23 finaliste dell’ultimo quindicennio, non v’è dubbio che per valore potessero esserci almeno 4-5 italiane. E se squadre come Porto, Benfica, Chelsea, Liverpool, Arsenal hanno vissuto il "declassamento" in Europa League come opportunità per vincere il torneo, le nostre maggiori forze si sono depresse, rimpiangendo la competizione più nobile e mal vivendo la realtà: difetto tipo delle aristocrazie decadute, per questo si parlava di atteggiamento culturale. Poi v’è l’ignoranza dei dirigenti - e questo sarebbe un nutrito capitolo a parte. Sembrano soldi solo quelli della Champions. È ovvio che solo partecipare alla competizione maggiore significa incassare intorno ai 15 milioni di euro, bottino che cresce dagli ottavi in su. Eppure anche l’Europa League ha il suo valore: la vittoria è pagata sui 10 milioni, le partite per far frusciare le casse del botteghino sono molte, e raddoppiano l’incasso. Con la miseria che gira, non è poco. E un trofeo è sempre un biglietto da visita per procacciare sponsor e lusingare calciatori di rango.

    Ma questo torneo è stato sempre vissuto come un tormento, molte partite, molte trasferte anche lontane, guadagni solo eventuali…e il ridurre poi tutto al denaro è sintomo di quell’incultura sportiva che si manifesta in molte situazioni, anche più sfacciate e dolorose. Oltretutto, per riavere un po’ di pace in Champions (quattro squadre in corsa, tre con l’accesso diretto) è necessario ripartire proprio dall’Europa League, che ci concede qualche possibilità, oggettivamente vietata nella competizione maggiore (come fa la Roma a sopravvivere al suo girone?). Dunque il quartetto nostrano che affronta la lunga ma niente affatto modesta Europa League deve avere ambizioni antiche. Napoli, Fiorentina, Inter e Torino hanno argomenti per competere, per provarci (e i granata possono ispirarsi al Braga, all’Espanyol, a chi è arrivato in fondo contro vento). Le altre tre per qualità e profondità d’organico possono essere a Varsavia, fra nove mesi, per l’ultimo match. Serve umiltà, senso della realtà (il Napoli soggiogato per velocità, ritmo, intensità a Bilbao non deve certo credere “stretta” questa competizione…), serve coraggio, fantasia, e vedere l’Inter giocare con tre difensori centrali e due terzini anche contro i semiprofessionisti islandesi (e anche con 8 gol di vantaggio!!!) non è che entusiasmi, serve visione alla Fiorentina, squadra senza trofei da troppi anni, e con un organico che per vari incastri alla fine è fra i più competitivi della penisola.

    In queste settimane di compunzioni e lacrime di coccodrillo, e buoni propositi a mucchi di dieci, come sempre, dove il calcio italiano fa schifo a tutti ma tutti sanno come rivestirlo, e le idee sembrano magnifiche e progressive come certe povere sorti, ecco che la migliore strada è sempre quella, il campo, dove abbiamo perso centimetri e sono diventati metri, dove possiamo lottare e riguadagnare qualcosa, i soldi poi verranno, i soldi sono importanti, e quel terzetto di nostre blasonate rappresentanti non è certo in mano agli spiantati. E poi, davvero, i soldi non sono tutto: il Napoli ha un fatturato nettamente maggiore all’Athletic Bilbao, e più che doppio è il valore economico dei giocatori, e maggiore è la forza finanziaria della proprietà. Eppure i baschi correvano di più e giocavano meglio.

    Marco Bucciantini (giornalista de L'Unità)


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