'Aprilo in due, come una cozza!'
“Dallo stadio calcistico il tifoso retrocede ad altro stadio: a quello della sua stessa infanzia” (Eugenio Montale, “Trentadue Variazioni”).
Il calcio ha a che fare con la violenza perché fin da bambini si cresce con genitori tifosi? Con adulti più infantili dei propri figli? E se molto di quello che vediamo all’ ultimo stadio cominciasse dal primo?
Un’ intervista con un ex giovane calciatore (foto di iamnaples.it), che vale come campione generale del calcio giovanile nel nostro Paese.
Quando hai cominciato a giocare a pallone e dove?
“Non ricordo bene, verso i sette, gli otto anni, nella squadra dove mi ha portato papà. Prima giocavo qualche volta con lui al parco. La squadra si chiamava A.S.O.R. Associazione Sportiva Olimpica Romana. C’era l’allenatore, un bel campetto; una vera e propria tribuna per gli spettatori. Facevamo partitelle e poi giochi di abilità, con le portine, i birilli. Era tutto organizzato: magliette, trasferte, riunioni con i genitori. E poi risate, ma ben presto anche urli, litigate. Erano poche però. Aumentarono col primo campionato.”
Ti divertivi?
“Sì; un buon ricordo. Diciamo che comunque da subito, provavo un po’ di paura o di tensione. C’erano un sacco di adulti intorno a noi e sentivi già frasi del tipo: ‘Un piccolo fenomeno… questo gruppo è eccezionale”. Mio padre dopo un po’di tempo veniva a vedermi agli allenamenti, uscendo prima dal lavoro e mi diceva quello che non dovevo fare, dove sbagliavo. L’allenatore ci parlava, il presidente ci parlava, mio padre mi parlava, tutti ci parlavano. Ci si mise anche un suo amico che aveva giocato nel Sora. Un giorno andò dal secondo allenatore e gli disse che doveva mettermi in un altro ruolo, ma i ruoli non c’erano ancora…Insomma era bello, ma da subito non sembrò solo un gioco. Era già un impegno. E, soprattutto, gli adulti se ne occupavano molto. Alla fine fu coinvolta anche mia madre che non sapeva nemmeno cosa fosse la Serie A.”
Niente partite negli spiazzi o nei cortili con i maglioni o gli zaini come pali. Subito piccoli professionisti?
“Non esageriamo. Però un gioco, libero, inutile il calcio per la mia generazione non lo è mai stato. La spontaneità e l’improvvisazione non sono mai esistite. Inquadrati da subito e subito sotto gli occhi degli adulti che, appunto, ci mettevano del loro. Le città non hanno spazi (piazze, cortili…) per la spontaneità. Alla mie epoca poi le parrocchie non attiravano più nessuno.”
Ma perché parli sempre degli adulti? “Mah…Me ne sono accorto dopo e forse ho mollato per questo. Intorno ai 14 anni, non mi ricordo se eravamo Allievi, la pressione è aumentata. Ci piaceva l’allenamento, ascoltavamo i consigli del mister, le partitelle 8 contro 8. Ma la domenica o il sabato le partite ‘ufficiali’ erano insopportabili. Ovunque. In casa e fuori. Dalle gradinate arrivavano urli ignobili. C’erano degli anziani appesi alla rete con la bava alla bocca. Genitori ‘smadonnanti’, madri in delirio che invitavano ad aprire il tuo avversario ‘in due come una cozza’. Gli arbitri erano dei ragazzini impauriti che s’irrigidivano. Imparavi a non sentire, ma era impossibile. Il mio allenatore fu aggredito da un suo collega dopo che la sua squadra aveva perso contro di noi 1 a 0 all’ ultimo minuto. La madre del nostro centrale che portava sempre un elegante “foulard” leopardato, urlava incessantemente ‘troia’ a qualsiasi altro soggetto di sesso femminile che non fosse della nostra squadra. Spesso litigavano anche i nostri. Quasi sempre per un cambio mal tollerato. Il padre del giocatore che usciva dava della ‘pippa’ a quello che entrava e l’altro padre si risentiva. A vederlo con gli occhi di oggi, gli adulti erano dei tifosi più infantili di noi. Ma il peggio avveniva, forse a porte chiuse.”
In che senso?
“Nelle riunioni tra famiglie, staff tecnico, dirigenti. Quasi tutti i genitori erano convinti di avere un fenomeno in famiglia e pretendevano che i loro figli giocassero sempre. Accusavano gli allenatori di non saper vedere le potenzialità, di non saper guardare in avanti. Il padre di un nostro compagno che a 14 anni pesava 70 chili senza essere molto alto, sosteneva che era perfetto nel gioco da “interdizione statica” (così si esprimeva) e che la corsa per suo figlio era deleteria: doveva avere un metodo di allenamento personalizzato. Un altro urlava in faccia all’allenatore che il figlio veniva penalizzato perché durante gli allenamenti subiva troppi falli. Un padre protestava perché la società non aveva fatto ricorso contro una squalifica di due giornate per una cosa da niente “poiché dei tre sputi a gioco fermo del figlio solo uno aveva raggiunto il volto di un avversario che aveva esagerato portandosi una mano all’occhio, come se lo sputo fosse un pugno”. Una volta iniziò una rissa per questioni di tifo.”
Contro un’ altra squadra?
“No. Nella nostra. Avevamo una maglia a strisce arancioni e blù. Uno sponsor ci dotò di una seconda divisa, calzoncini bianchi e maglia celeste coi bordi blù scuro. Eravamo felici perché il materiale era leggero, traforato, in una parola tecnico, simile a quello delle squadre di Serie A. Ma… Un genitore alzandosi in piedi eccepì con voce stentorea che si trattava di una “puttanata”, di una pugnalata inferta a tradimento. ‘Come si faceva ad accettare un regalo simile, che poteva ferire la sensibilità di molti?’ Noi che avevamo indossato la divisa nuova fiammante, rimanemmo stupiti. L’intervento accese la platea. Ci furono urli, offese, bestemmie: la sensibilità violata era quella dei romanisti che avevano visto i loro figli con una maglia vagamente laziale. Lo sponsor aveva regalato anche le tute e 25 palloni. Il rappresentante della ditta si aspettava un applauso: ricevette un mucchio di improperi. Prese il microfono e si dichiarò pronto a ritirare tutto. A questo punto i genitori laziali reagirono adducendo questioni cromatico ideologiche: ‘Lazio? Quando mai! Il celeste era più scuro e il bordino quasi rosso non ricordava forse la Roma?’ Finì a mezzanotte, con alcuni di noi che si addormentarono negli spogliatoi. Risolse tutto un genitore imprenditore di origine veneziana. Offrì di tasca sua un set di magliette neroverdi, ma i palloni no, a quelli non ci poteva arrivare. In campionato arrivammo quarti, ma successe, per la squadra, una cosa strana: dagli spalti i genitori romanisti tifavano contro i figli dei laziali e viceversa. A noi invece non ce ne importava nulla delle nostre fedi calcistiche. Questo fatto lasciava stupiti i tifosi avversari che non capivano tutte quelle bestemmie e minacce ‘amiche’. Il nostro gruppo si riappacificava solo quando scoppiava una rissa. Ci furono anche delle denunce. Credo che questo avvenisse ogni domenica su ogni campo d’Italia in ogni settore del calcio giovanile. Come dire: certe cose, violenza compresa, vengono da lontano e fin da subito hanno a che fare col calcio”.
Il calcio ha a che fare con la violenza perché fin da bambini si cresce con genitori tifosi? Con adulti più infantili dei propri figli? E se molto di quello che vediamo all’ ultimo stadio cominciasse dal primo?
Un’ intervista con un ex giovane calciatore (foto di iamnaples.it), che vale come campione generale del calcio giovanile nel nostro Paese.
Quando hai cominciato a giocare a pallone e dove?
“Non ricordo bene, verso i sette, gli otto anni, nella squadra dove mi ha portato papà. Prima giocavo qualche volta con lui al parco. La squadra si chiamava A.S.O.R. Associazione Sportiva Olimpica Romana. C’era l’allenatore, un bel campetto; una vera e propria tribuna per gli spettatori. Facevamo partitelle e poi giochi di abilità, con le portine, i birilli. Era tutto organizzato: magliette, trasferte, riunioni con i genitori. E poi risate, ma ben presto anche urli, litigate. Erano poche però. Aumentarono col primo campionato.”
Ti divertivi?
“Sì; un buon ricordo. Diciamo che comunque da subito, provavo un po’ di paura o di tensione. C’erano un sacco di adulti intorno a noi e sentivi già frasi del tipo: ‘Un piccolo fenomeno… questo gruppo è eccezionale”. Mio padre dopo un po’di tempo veniva a vedermi agli allenamenti, uscendo prima dal lavoro e mi diceva quello che non dovevo fare, dove sbagliavo. L’allenatore ci parlava, il presidente ci parlava, mio padre mi parlava, tutti ci parlavano. Ci si mise anche un suo amico che aveva giocato nel Sora. Un giorno andò dal secondo allenatore e gli disse che doveva mettermi in un altro ruolo, ma i ruoli non c’erano ancora…Insomma era bello, ma da subito non sembrò solo un gioco. Era già un impegno. E, soprattutto, gli adulti se ne occupavano molto. Alla fine fu coinvolta anche mia madre che non sapeva nemmeno cosa fosse la Serie A.”
Niente partite negli spiazzi o nei cortili con i maglioni o gli zaini come pali. Subito piccoli professionisti?
“Non esageriamo. Però un gioco, libero, inutile il calcio per la mia generazione non lo è mai stato. La spontaneità e l’improvvisazione non sono mai esistite. Inquadrati da subito e subito sotto gli occhi degli adulti che, appunto, ci mettevano del loro. Le città non hanno spazi (piazze, cortili…) per la spontaneità. Alla mie epoca poi le parrocchie non attiravano più nessuno.”
Ma perché parli sempre degli adulti? “Mah…Me ne sono accorto dopo e forse ho mollato per questo. Intorno ai 14 anni, non mi ricordo se eravamo Allievi, la pressione è aumentata. Ci piaceva l’allenamento, ascoltavamo i consigli del mister, le partitelle 8 contro 8. Ma la domenica o il sabato le partite ‘ufficiali’ erano insopportabili. Ovunque. In casa e fuori. Dalle gradinate arrivavano urli ignobili. C’erano degli anziani appesi alla rete con la bava alla bocca. Genitori ‘smadonnanti’, madri in delirio che invitavano ad aprire il tuo avversario ‘in due come una cozza’. Gli arbitri erano dei ragazzini impauriti che s’irrigidivano. Imparavi a non sentire, ma era impossibile. Il mio allenatore fu aggredito da un suo collega dopo che la sua squadra aveva perso contro di noi 1 a 0 all’ ultimo minuto. La madre del nostro centrale che portava sempre un elegante “foulard” leopardato, urlava incessantemente ‘troia’ a qualsiasi altro soggetto di sesso femminile che non fosse della nostra squadra. Spesso litigavano anche i nostri. Quasi sempre per un cambio mal tollerato. Il padre del giocatore che usciva dava della ‘pippa’ a quello che entrava e l’altro padre si risentiva. A vederlo con gli occhi di oggi, gli adulti erano dei tifosi più infantili di noi. Ma il peggio avveniva, forse a porte chiuse.”
In che senso?
“Nelle riunioni tra famiglie, staff tecnico, dirigenti. Quasi tutti i genitori erano convinti di avere un fenomeno in famiglia e pretendevano che i loro figli giocassero sempre. Accusavano gli allenatori di non saper vedere le potenzialità, di non saper guardare in avanti. Il padre di un nostro compagno che a 14 anni pesava 70 chili senza essere molto alto, sosteneva che era perfetto nel gioco da “interdizione statica” (così si esprimeva) e che la corsa per suo figlio era deleteria: doveva avere un metodo di allenamento personalizzato. Un altro urlava in faccia all’allenatore che il figlio veniva penalizzato perché durante gli allenamenti subiva troppi falli. Un padre protestava perché la società non aveva fatto ricorso contro una squalifica di due giornate per una cosa da niente “poiché dei tre sputi a gioco fermo del figlio solo uno aveva raggiunto il volto di un avversario che aveva esagerato portandosi una mano all’occhio, come se lo sputo fosse un pugno”. Una volta iniziò una rissa per questioni di tifo.”
Contro un’ altra squadra?
“No. Nella nostra. Avevamo una maglia a strisce arancioni e blù. Uno sponsor ci dotò di una seconda divisa, calzoncini bianchi e maglia celeste coi bordi blù scuro. Eravamo felici perché il materiale era leggero, traforato, in una parola tecnico, simile a quello delle squadre di Serie A. Ma… Un genitore alzandosi in piedi eccepì con voce stentorea che si trattava di una “puttanata”, di una pugnalata inferta a tradimento. ‘Come si faceva ad accettare un regalo simile, che poteva ferire la sensibilità di molti?’ Noi che avevamo indossato la divisa nuova fiammante, rimanemmo stupiti. L’intervento accese la platea. Ci furono urli, offese, bestemmie: la sensibilità violata era quella dei romanisti che avevano visto i loro figli con una maglia vagamente laziale. Lo sponsor aveva regalato anche le tute e 25 palloni. Il rappresentante della ditta si aspettava un applauso: ricevette un mucchio di improperi. Prese il microfono e si dichiarò pronto a ritirare tutto. A questo punto i genitori laziali reagirono adducendo questioni cromatico ideologiche: ‘Lazio? Quando mai! Il celeste era più scuro e il bordino quasi rosso non ricordava forse la Roma?’ Finì a mezzanotte, con alcuni di noi che si addormentarono negli spogliatoi. Risolse tutto un genitore imprenditore di origine veneziana. Offrì di tasca sua un set di magliette neroverdi, ma i palloni no, a quelli non ci poteva arrivare. In campionato arrivammo quarti, ma successe, per la squadra, una cosa strana: dagli spalti i genitori romanisti tifavano contro i figli dei laziali e viceversa. A noi invece non ce ne importava nulla delle nostre fedi calcistiche. Questo fatto lasciava stupiti i tifosi avversari che non capivano tutte quelle bestemmie e minacce ‘amiche’. Il nostro gruppo si riappacificava solo quando scoppiava una rissa. Ci furono anche delle denunce. Credo che questo avvenisse ogni domenica su ogni campo d’Italia in ogni settore del calcio giovanile. Come dire: certe cose, violenza compresa, vengono da lontano e fin da subito hanno a che fare col calcio”.
Fernando Pernambuco