Bucciantini: il peperoncino che Marco Ansaldo non dava a nessuno
Si gira il mondo insieme, privilegiati e fieri. Per raccontare lo sport, un gesto, un’emozione, una medaglia, una delusione, una bella storia e una cattiva giornata. Si sta insieme: la condivisione delle cose e dei posti e degli odori crea un rapporto che può arrivare all’amicizia, se la rivalità non la corrode. Oggi mi tormenta essere diventato amico di Marco Ansaldo perché devo perderlo e devo misurarmi con la sua mancanza, irrimediabile come la morte. È strano e bellissimo vedersi poco ma nei posti giusti, incantati, sognati: ad aspettare un ciclista, un gol, un marciatore. Ritrovarsi e salutarsi, segnare l’appuntamento per la cena, fare tardi per discutere su tutto, consumare il giorno insieme.
Volevamo esserci: il suo desiderio professionale era enorme, inappagabile. Era la sua benzina: a volte ne restava incendiato, e spegnerlo che fatica!
Marco Ansaldo era inviato de La Stampa, io stavo all’Unità, giornale che guardava con affetto per un piccolo segreto che resta fra noi, come promesso. Era un rapporto diseguale: in me c’era la soggezione del merito, che si è un po’ persa, ovunque. Ci allacciò un collega, Paolo Giampieri del Secolo XIX, che rientra nella mia fratellanza allargata: suo è stato anche questo brutto messaggio di questa orrenda giornata.
Marco sapeva scrivere con competenza e immagini. Aveva una misura perfetta. Non piegava la gerarchia delle notizie all’esigenze del racconto: tutto era riunito con la naturalezza che è la vera rivelazione del talento. Era un certificato d’autenticità: questa credibilità è il miglior premio per un giornalista. Il suo sapere era ampio e colto, usato in modo rassicurante, non ostentato. Aveva stile e figura: uno zaino a tracolla come un ventenne, ma dentro c’era il fuoco: a ogni pranzo o cena la cerniera si apriva, come un rito. Usciva una busta trasparente e piena di pezzetti rossi. Era il peperoncino tritato, credo che lo coltivasse sul balcone di casa, non ne sono sicuro. Pescava una manciata e la lanciava sul piatto, su ogni piatto. Era un gesto atteso dalla comitiva dei giornalisti, era come accendere la fiaccola olimpica: senza, non cominciavano i Giochi. Una volta gli chiesi di pizzicare un po’ di quella scorta, appena appena, sugli spaghetti espressi: sudai per un’ora. Come davanti ai suoi articoli, anche in quell’attimo mi sembrò inarrivabile.
Si viaggia insieme, allora, per incrociare lavoro e passione. Come accade a quelli che ci sono davanti, quelli che dobbiamo raccontare, restituire nell’atletismo e nella complessità umana. Come quando abbiamo seguito l’Italia del calcio. Anche loro condividono un viaggio sognato da lontano. La loro piacevole coazione è dover fare l’uno per l’altro: è il contratto sociale alla base dello sport di squadra. Leggere dunque i rimasugli del nostro ultimo Mondiale, le vendette di Balotelli che si sdegna - proprio lui - del già vendicativo Prandelli, che per proteggerlo si è rovinato, oggi mi suscita una pena infinita perché qualifica chi vive di certi sentimenti e si rifugia nel clamore mediatico, non potendo proporre quello sportivo.
Si va per il mondo insieme, come fanno i tennisti, una delle compagnie di giro più affascinanti e romantiche: ogni settimana una città nuova, una storia nuova, un destino da scrivere su una pagina bianca. E invece alcune di quelle pagine erano già scritte, il guadagno certo della scommessa truccata era più attraente del guadagno incerto della vittoria da lottare, da guadagnare. Certo, un sistema che permette di poter puntare su ogni singolo “quindici” è permeabile alla corruzione. Ma la malacarne non ha bisogno di alibi, se li trova da sola.
Abbiamo anche raccontato lo sport fasullo, insieme a Marco. Abbiamo confuso imprese e imbrogli: non lo sapevamo.
Marco Bucciantini