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    Bucciantini: Conte, visto che Juventus?

    Bucciantini: Conte, visto che Juventus?

    Forse Pirlo fermerà a Berlino la sua corsa: lo leggo proprio su Calciomercato.com. Lasciare prima di farsi compatire è una lezione di dignità, c’è più narcisismo nel non accettare la realtà, nel piegarla alle proprie infinite voglie. Va bene. Forse Tevez sentirà insopportabile il richiamo della terra patria. Forse no: per senso del dovere, perché c’è tempo per tornare, chissà perché. Forse uno fra Vidal o Pogba servirà per far girare quattrini, e rinfrescare l’organico: forse si valuterà che due centrocampisti così duttili, così agonistici, così tecnici e tattici al tempo stesso e così ormai pratici dell’ambiente e della Serie A, così ancora “freschi” possano invece essere una perdita che si può rimandare, evitare, specie se un gruppo così ben calibrato dovrà subire le partenze suddette.

    Per dire: anche il futuro prossimo della Juventus offre incognite, azzardi, incertezze. Come quello di tutte le sue avversarie. Eppure c’è una differenza: c’è più solidità, più robustezza, anche più logica in quello che sembra accadere a Torino. E non è un’impressione suggerita dalle vittorie (che servono, per carità, e legittimano, e lustrano qualsiasi scelta, perfino sbagliata). Come è cifra della sua storia, la Juventus è capace di mantenere i vantaggi competitivi accumulati. Per questo  non sta mai troppi anni senza vittorie: ha una tenuta, un istinto di conservazione autentico, primitivo, che assicura punti di caduta di grande nobiltà. 

    Il giorno della decima Coppa Italia, lottata contro un’ottima avversaria, si possono timbrare come ufficiali le distanze fra la Juventus e le altre. Certo, il pallone è rimbalzo, radenza, geometria e movimento sghembo: le cose durano, e le cose cambiano. Le avversarie si avvicineranno, magari più in fretta di quanto oggi non sembri calcolabile. Ma questa stagione che doveva offrire alla Roma (al Napoli, anche) a chi potesse provarci un’avversaria sfiancata da tre anni a tutta birra, ecco, si chiude con le distanze intatte, e da un certo punto di vista perfino aumentate. 

    Chi conosce o immagina la classe e l’orgoglio dei campioni (e nella Juventus ce ne sono almeno 5 di indubbio lignaggio) può convenire che questa stagione sia stata avviata nella sua grandezza il giorno esatto in cui Conte ha lasciato Vinovo. Era il 15 luglio del 2014. L’abbronzatura dominava i volti dei protagonisti. Le ragioni covavano da tempo ma s’incendiarono di fiamma improvvisa: Conte voleva rinforzi di comprovato curriculum in attacco (e sicuramente un esterno, meglio se Cuadrado) perché era convinto che fosse anzitutto tecnico il divario con le squadre migliori della Champions, e non avrebbe voluto affrontare un ulteriore fallimento continentale. Dal Campionato, dopo il record di punti, non aveva bisogno di spremere altro, denotando anche un conclamato (onestamente) calo di motivazioni, per lui che di questo vive e lavora. 

    Che il calcolo di Conte fosse piccolo si è saputo poi: non appena una rinfrescata tattica ha comunque aggiunto un uomo alla manovra d’attacco della squadra (non tanto l’esterno, ma un centrocampista usato da trequartista), riportando la difesa all’allineamento a quattro, almeno come alternativa, base di partenza di tutte le squadre maggiori (quasi sempre per poter poi avere due esterni d’attacco davanti ai terzini). Chi ci legge, sa che questo “ammodernamento” è stato un nostro tarlo, poi un auspicio, poi un tributo ad Allegri. Ma non è su questo che indugiamo oggi. Proviamo invece a considerare un “effetto collaterale” dell’addio di Conte, finora sottovalutato: in sostanza, il ct faceva intendere che il suo gruppo – così com’era, e già ampliato con gli arrivi di Evra e Morata, che Conte reputò insufficienti – non era in grado di competere al massimo livello in Europa. Dimenticando la buona Champions del 2012-13 (fuori con il Bayern, che poi distanziò il Barcellona con il doppio dei gol rifilati ai bianconeri), e sopravvalutando la fasulla partita di Istanbul, nell’edizione 2013-14, in un girone dove la Juventus era stata vicina al Real (poi campione) e dove aveva pagato la timidezza tattica nei pareggi contro il Galatasaray (a Torino) e contro il Copenhagen in Danimarca. Torniamo dunque dai campioni, ai quali arrivò un messaggio fortissimo, dirompente: Conte se ne va, perché con voi non può competere in Europa. Nel fiero, tenace, vivace cammino in Champions del gruppo di Allegri, oltre alla sensibilità e duttilità del tecnico c’è anche questo sano revanscismo di giocatori che hanno voluto dimostrare di essere competitivi, perché a gente come Buffon, Pirlo, Pogba, Vidal e Tevez non manca proprio niente, e altri si sono elevati (Marchisio, su tutti) e uno come Evra le Coppe le vince da sempre. E i difensori sono stati più solidi di sempre. Quel gruppo ha voluto dimostrare a Conte che il merito dei tre scudetti e dei 102 punti era quantomeno da condividere, non da intestarsi personalmente, smarcandosi davanti a quello che veniva più difficile. 

    Adesso servirà di più, davvero: confermarsi è sempre più complicato e questa dimensione europea va resa credibile guadagnando la stretta finale con continuità. Classe, personalità, salute e velocità sono le quattro qualità fondamentali. Non devono essere per forza nomi da 60 milioni di euro: a ben vedere i due titolari nuovi di questa stagione sono stati un vecchio mestierante della fascia sinistra, Evra, e un giovanotto arrivato per cercare minuti, Morata, e che sta invece trovando tutto, anche la gloria. Entrambi, hanno mosso tatticamente la Juventus, favorendo l’uso della difesa a quattro, necessaria per una maggiore e più coraggiosa copertura del campo (utile in Champions) e soprattutto indispensabile per potersi servire di tutto il quartetto dei centrocampisti: reparto, va ricordato in eterno, costruito nei titolari (tutti campioni autentici) spendendo circa 12-13 milioni di euro, la metà del costo di Iturbe. E aggiungendo – con Morata – velocità e ampiezza all’attacco, che un tempo era stilizzato sull’asse centralissimo Tevez-Llorente. Due acquisti “mirati” più che clamorosi. 

    Adesso il serbatoio riempito in questi anni offre giovani buoni da inserire o da allevare, e poi monetizzare, o scambiare. La covata juventina è nota. Rugani sembra il più “adulto”, e con Sarri ha fatto un corso accelerato di protagonismo, che sarà utile. Soprattutto, è cresciuto in una difesa a quattro. Ma se verrà valutato ancora acerbo, se per lui saranno importanti ulteriori 40 partite (che la Juventus non può offrire), ritarderà il suo arrivo a Torino. Dove sarà invece accolto Berardi, “ricomprato” per una cifra già adesso inferiore al suo valore. Lui con Dybala aggiungerà una variante all’attacco di Allegri: sono due mancini, in una squadra dove tutti i migliori per balistica preferiscono calciare con il destro. Berardi, poi, sa lavorare da punta esterna (grande lacuna dell’organico), Dybala sa fare regia d’attacco, oltre che concludere. Entrambi potrebbero colmare l’assenza di Pirlo sui calci piazzati (che dolore). Zaza “galleggerà” ancora un anno, o sarà “usato” come contromarca per alleviare queste spese, come Boakye, come è successo a Immobile, a Gabbiadini. Chi vince, non si porta appresso rimpianti. Comunque, sarà importante tenere Tevez, per la sua personalità, la sua fame, il suo “trasferimento” emotivo ai compagni. Sarebbe più semplice inserire anche i due ragazzi, altrimenti c’è da ricostruire il reparto, ma probabilmente arriverebbe qualcuno di rango internazionale, abituato alla Champions. 

    A centrocampo si parla di Nainggolan è questo sarebbe un arrivo strano, tatticamente: la Juventus ha costruito il reparto su una mutualità e parcellizzazione del lavoro. Tutti sanno segnare (Pogba e Vidal hanno più repertorio e prepotenza negli inserimenti), tutti sanno disimpegnare (nessuno, mai, come Pirlo), tutti sanno lottare, raddoppiare, tenere il ritmo, accorciare i reparti, tenere vive le “seconde palle” (nessuno come Marchisio). Insomma, un reparto di eccellenze capaci di far tutto. Il belga della Roma è invece mattatore: lui provvede per tutto e tutti, oscurando gli altrui protagonismi. Ha una visione un po’ provinciale del campo. Può darsi che la maglia della Juventus lo calmerebbe, lo completerebbe (riducendolo, almeno un po’). A Roma il suo arrivo in squadra – coinciso con le sfortune di Strootman, giocatore delizioso per la capacità di vivere tutti i momenti della partita, oscuri e luccicanti, con o senza palla – ha cambiato pelle alla squadra. Lui ha spesso giganteggiato, gli altri sono piano piano spariti. Senza fraintendimento: Nianggolan è un ottimo giocatore, viene difficile immaginarlo nella Juventus. Anche se potrebbe essere la dimensione che giocoforza lo migliora, lo raffina, garantendo ad Allegri una sostanza centrale senza disperdere troppa qualità. Chissà. Magari toccherà a Verratti mettersi nel solco di Pirlo, lui sì assicurando una continuità più docile, una migliore intelaiatura coi compagni, e quella dorsale italiana che sembra essere una buona esigenza societaria. I soldi ci sono, la vittorie arricchiscono, quel lavoro sui giovani (non per forza prodotti dal vivaio) crea sostanze virtuose. 

    Lo stadio poi è un vantaggio competitivo che la Juventus ha saputo intuire in anticipo, e ha avuto la forza per portare avanti (e anche la disponibilità politica per farlo): discorsi adesso chiari a tutti, e lasciapassare del potere ormai scritto nero su bianco, per legge. Vediamo quanto tempo servirà agli altri competitori per arrivare allo stadio di proprietà. Quanto è importante, lo disse Agnelli al collega Andrea Ramazzotti (Corriere dello Sport) un anno fa: “Lo stadio ci è costato 150 milioni, versati interamente dalla società attraverso tre vie: la cessione dei diritti sul nome e i premium seats a un'agenzia, la cessione di diritti per il comparto est e attraverso il Credito Sportivo. Questa spesa così importante ci ha dato ragione a livello di numeri di spettatori visto che abbiamo il 95% di saturazione dell'impianto. I ricavi da stadio sono passati dai 13 milioni del Comunale a 46 milioni, 9 dei quali arrivano dal no match day (in aumento in questa stagione)”. 

    Si capisce che in pochi anni l’investimento iniziale sarà superato dai ricavi. E nel patrimonio societario è eternamente presente una voce solida, attiva. Ed è perfino ridondante sottolineare la forza culturale di uno stadio di proprietà, l’inestimabile aggiunta di “marchio”, orgoglio, senso di appartenenza, senso di comunità: per questo furono scelte dimensioni che assicurassero il tutto esaurito. Per questo la Juventus ha un rendimento casalingo impressionante. Ora, non sarebbe onesto tralasciare la virilità “storica” di questa società, in un Paese (l’Italia) e in un contesto (il calcio) dove le rendite di posizione sono un vantaggio spesso incolmabile. Dove ai potenti è concesso più che agli altri, dove il servilismo supera la servitù: non necessita, per intendersi, di richieste: i favori si portano in livrea, senza che siano richiesti. Nel creare alcune posizioni di vantaggio, la Juventus ha sicuramente approfittato del suo blasone (esercitato per convincere un campione a parametro zero, o per persuadere un sindaco sui terreni per lo stadio: altrove è lotta infinita). E della visione “commerciale” di alcune entrate: nei prossimi tre anni, a regime, i tanti discussi diritti tv garantiranno ulteriori 20 milioni in più ai bianconeri, che prenderanno la fetta più grossa (11,5%) dell’aumento complessivo dei milioni diffusi, per il combinato di bacino, risultati recenti e storici e popolazione indicato dalla legge. 

    Ma è riduttivo fermarsi a questo. Il vantaggio competitivo della Juventus è stato riconquistato con una profonda e solida programmazione (lo stadio di proprietà), con la riscoperta dello scouting (che vale per i giovani italiani, da tenere o monetizzare, per Pogba, preso a 0 e rivendibile a 70, 80 milioni…), con l’attenzione al merchandising, il punto debole delle società di Serie A, anche della Juventus, in un Paese dove (per esempio) per abitudine (non solo per le pratiche sportive) l’industria del falso si magia una buona parte della torta, vendendo magliette perfino davanti agli stadi!, giro d’affari comunque in aumento, raddoppiato, dal 2012 a oggi: al livello del Milan, fra sponsor e merchandising puro, con circa 80 milioni. Poi ci sono i ricavi per le vittorie, anche quelli in ovvio aumento in questa stagione.  E davanti a questo lavoro la società ha avuto la fermezza con di non cedere alla forzature di un tecnico immenso e decisivo per l’avvio di questi trionfi (Conte), cercando così di alimentare quel serbatoio infinito che è l’orgoglio dei campioni. Per ritrovarsi fra quindici giorni a Berlino contro Messi e Neymar. 

    Marco Bucciantini

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