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    Bucciantini: caro Totti, aiutaci a scrivere un bel finale di carriera

    Bucciantini: caro Totti, aiutaci a scrivere un bel finale di carriera

    “Per lo scrittore argentino un destino non è migliore d'un altro, ma ogni uomo deve compiere quello che porta in sé. È Borges: non distingue gli uomini, non li giudica. Li osserva. È lo stato d'animo che serve davanti a Francesco Totti, alle sue infinite giornate che hanno l'odore dell'erba e del cuoio”. 
    Scrissi questo attacco per un pezzo dell’autunno del 2013, la Roma di Garcia aveva appena vinto a Milano contro l’Inter, confermando l’autorità e la genuinità del suo primato. Totti aveva riempito San Siro e bisognava parlarne svestendosi del desiderio dei vocaboli esaltati, che possiedono i tifosi e al tempo stesso non aver timore di tentarne di splendidi, come vuole questo calciatore. Bisognava anche evitare la distrazione e la vertigine dei numeri, per collocare Totti un po' a lato del presente e cercare di condividerlo come un patrimonio di tutti, come di tutti è il calcio. Quella sera tutto era facile, anche scrivere: il suo destro tuonava ancora come tanti anni fa, la sua testa pensava ancora un calcio ambizioso e visionario: un tempo sfidava il terrore dei portieri con il pallonetto, che resta un modo vezzoso e ponderato di aggirare un ostacolo: nel caso, appunto, l'ultimo giocatore. Nell’età adulta ha preferito cannoneggiare, direttamente, senza trappole.

    Diciotto mesi fa era già evidente la sua fatica nel trovare spazio e tempo per ragionare fra le difese avversarie. Anche per questo, negli anni la classe è diventata meno esuberante e più altruista, come se fosse stata scolpita dalla saggezza degli anni passati. Oggi è più difficile scrivere, è più complicato astenersi, limitarsi all’osservazione. Certe storie sono state così magnifiche che non chiedono pietà. Serve ancora qualcosa di quella sera d’ottobre. Pochi ricorderanno i due gol: un tiro preciso, secco. E un rigore. Ve ne sono esempi abbondanti nella carriera di Totti e i particolari abbondano nei fatti, non nella memoria. In quella resterà – credo – l’elegante maniera con cui Totti scivolò via all'affronto di Pereira, a ridosso della sua difesa schierata a riparo del calcio d'angolo dell'Inter, generosamente e affannosamente alla ricerca di un gol per riaprire il match, sullo 0-2. La cronaca di allora: “Ecco il controllo di palla, che è sempre il documento d’identità del calciatore: l’oggetto del desiderio è al riparo, assicurato al campione, che lo maneggia con la cura per l’oggetto prezioso, decisivo. Il colpo d’occhio verso il compagno, Strootman, che si fida di Totti, sa che può trasformare l’assedio dell'Inter in un contrattacco maligno, con gli avversari scoperti. Infatti l’olandese si butta in avanti, sguarnisce la linea di difesa. E Totti, con un colpetto di esterno destro, galleggiando come un danzatore sull’appoggio precario, fa correre Strootman. Si può organizzare un gol anche a novanta metri dalla linea di porta: quando la palla arriva a Totti, lui ha già in mente che può trasformarsi in un gol. Semmai è evidente il piacere del leader di intuire quel moto che muove tutti gli altri - Florenzi, Gervinho, Maicon. Spingono e aspettano la palla: che arriva, arriva”.

    Si poteva guardare Totti e scrivere, anzi, era lui stesso a muovere le nostra dita sulla tastiera. Quell’idea praticata in un fazzoletto di campo, e come un fazzoletto volata via imprendibile agli altri, quell’assist a 90 metri dalla porta avversaria era un romanzo di pochi secondi, già steso, bastava solo tradurlo. E si aggiungeva alla storia di quest’uomo che all'avvio della carriera sembrava infatuato dal coraggio: più che possederlo, lo corteggiava. Talvolta la stoltezza e l'ingegno si annullavano. Gli veniva poi - e per lo stesso movente - rimproverato di mancare nelle dispute decisive, e con la Nazionale non riusciva mai a impossessarsi del ruolo maggiore. Quel rigore calciato così, perfido, nella semifinale dell’Europeo, contro gli olandesi che ci avevano dominato, e noi lì, a fregarli con il cucchiaio. E l’altro rigore, ai Mondiali poi vinti, nella sfida agli australiani, una partita che sembrava semplice e invece dovemmo rincorrere, per l'espulsione di Materazzi: di Totti in Nazionale si ricordano due rigori, in due partite peraltro cominciate in panchina. È poco, così poco che è ingiusto. 

    Così ingiusto (in un Paese che mortifica il talento, dove Dino Baggio ha più presenze in Nazionale di Roberto Baggio, va ricordato, ogni volta, come un delitto allo sport) che concludemmo il peana con l’appello a Prandelli di portare Totti in Brasile – a distanza di tempo, e conoscendo i fatti: non avrebbe certo sfigurato. Non sarebbe stato un premio alla carriera ma solo l’obiettivo riconoscimento della forza che ancora nutriva il giocatore. In campo non si vedeva l'età: si vedeva la classe, proposta come chiedevano le forze residue. Con l'età la sua azione è dovuta cambiare, s’è modellata. La potenza e l'avventatezza sono diminuite, la visione e la fantasia sono cresciute, perché nutrite dall'esperienza, dalla serenità, dal calcolo e anch dalla cultura che sfama un uomo, anche senza volerlo, con gli anni.
    Poi succede così, senza grandi avvisi: l’anagrafe manda la cartella esattoriale, e devi pagarla perché non sei tu che decidi, perché quella è una tassa che non si può evadere. Non c’è niente da fare, l’avversario diventa duplice, è l’altro, davanti, ed è quello addosso, che ritarda un movimento, un pensiero, che fiacca un tiro un tempo robusto. Quando il talento è stato enorme, dominante, c’è di conserva un buon margine anche per diminuirsi. Un’edizione minore può essere comunque presentabile. Ma quando sei stato importante è impossibile vivere altri ruoli: l’orgoglio può imbrogliare, può truccare l’immagine dentro lo specchio, ma non può ingannare l’anima. Spesso si dice: ancora un paio d’anni, giocando poco, da padre putativo, da esempio, da chioccia, mezz’ora ogni tanto. Si dice, ma non è un ruolo per chi in campo governava tutto: se stesso, i compagni, gli umori della folla, la fatica degli avversari. Per diventare un accompagnatore degli altri un campione ha bisogno di fare decompressione, di lasciare scemare tutto l’ego (anche esaurendolo in campionati esotici e ridicoli, ma che tristezza, però). Non si passa da protagonisti a comparse per scelta: è innaturale.

    Certo, i tifosi non sopportano di vedere Totti scendere dal suo mondo perché ci sono cresciuti insieme, e insieme hanno sognato sogni anche troppi grandi ma sempre insieme hanno camminato, sperato, esultato, pianto. Insieme hanno costruito un sentimento, hanno puntellato la loro vita di scadenze, di gol, di rivincite. Totti abita la memoria dell’appassionato – di qualunque colore. Ed è il respiro dei tifosi della Roma, è la loro aria. Nessuno rinuncia all’ossigeno così come nessuno apre un portone, per paura di perdere qualcosa. Poi la porta si apre, l’aria torna nuova. La cosa più insopportabile sarebbe mentire a se stessi, anche accalcati nella curva: “Sì, Totti è in difficoltà, ma è la Roma che gioca male”. Vero, verissimo. Ma c’è un segreto senso di colpa in questa ricerca di una frase in più, di un problema in più: “Totti è da cinque in pagella, ma Gervinho non segna mai, e Iturbe è stato pagato 27 milioni per un gol… E Nainggolan è troppo provinciale… E Pjanic? Quando diventa un leader, Pjanic? E gli esterni non corrono, non attaccano lo spazio, a chi la passa, Totti?”. La Roma adesso è una macchina in panne lontana dall’officina: non va, e nessuno sembra saperci mettere mano. Ma Totti deve distrarsi da questo momento, non può vivere nella corrente insieme agli altri pesci. Sicuramente ha argomenti da proporre, ha numeri assoluti (gol e assist) che ancora lo difendono rispetto ai compagni (solo Ljajic, forse, ha fatto meglio in quel deludentissimo reparto). Ha un contratto che lo assicura fino ai 40 anni, limite simbolico, indicato da tempo, impegno preso con se stesso e promessa fatta agli altri. Ha (avrebbe) la possibilità di cercarsi una parte minore, ma – ripetiamo – bisogna vedere se lui e l’ambiente sono capaci di inquadrarsi, di viversi così. Anche la sua collocazione in campo è complicata: ci sono ruoli dove l’impegno e la gravità sono più gestibili, o dove è più semplice e stereotipato “invecchiare”, come per esempio fa Toni, gigante di riferimento, lassù. Il ruolo di Totti è in divenire, è quasi da reinventarsi azione dopo azione, è una ricerca continua di un posto fra le linee dei reparti avversari. Dopo il derby e la doppietta e il selfie consigliammo a Garcia di usare Totti da centravanti, anche perché in quella squadra non c’è nessuno che sa stare in area e ne capisca i doveri e i tempi. Era anche un modo per proteggere il giocatore con un’identificazione importante negli schemi.
     
    Torniamo alla corrente e ai pesci. Totti merita una valutazione ovattata, protetta, sua. In fondo, così ha vissuto il suo lavoro, sottraendosi a quelle correnti, al logorio delle mode: nel look, nelle apparizioni. Ha fatto vita sana, un campione non può sottovalutare la professionalità, solo quella permette di portare avanti negli anni un fisico prestante. Anche l'autoironia è servita a svelenire il corpo dalla tossine. È un atleta integro ma ridimensionato, e un uomo sorridente. Può aggrapparsi ai prossimi gol, e con essi rivendicare ancora un pezzo di strada, con quel filo di umiliazione di chi è costretto a giustificare la sua presenza. Attendere che il moccolo prosciughi la cera, per vedere fino in fondo quella fiamma, ma ha senso un’osservazione feticista quando quel fuoco scaldava tutta una squadra, una città, un presente? 

    Se siamo a chiedercelo, è perché abbiamo un’idea che non avrà fatto fatica a emergere. Che è difficile da scrivere, proprio così come diciotto mesi fa i polpastrelli picchiavano i tasti quasi in trance. Però deve succedere e può accadere in due modi: Totti esercita il proprio diritto-arbitrio “papale” che si è meritoriamente costruito, “dimettendosi” da calciatore a vita, oppure viene consumato dalle ipocrisie societarie e dal brusio di fondo dei tifosi. Ovvio che per chi scrive non vi sia dubbio: il finale deve essere all’altezza, è una necessità estetica per un ragazzino via via diventato uomo e padre che in campo ha sempre scelto dove andare, e così - per indole, per talento - finendo per trovarsi spesso dove doveva essere. Anche negli anni “pieni” è sembrato giocare per gusto, ed è stato il suo miglior investimento, così i suoi giorni, e con i giorni gli anni, sono diventati le delizie di molti, se non proprio di tutti. Il crepuscolo lo ha avvicinato alla condivisione perché è destino dei campioni suscitare simpatie maggiori anche fra gli avversari quando si contrae la loro pericolosità, la loro minacciosa bravura. In realtà non ha mai cercato queste adesioni, anzi, è stato continuo nel marcare il suo posto, il suo territorio, i suoi colori. 


    Marco Bucciantini
     

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