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Bucciantini: Sarri, un rivoluzionario per Inter, Napoli e Roma
Quando giovani miliardari per eredità si lamentano perché da qualche parte si lavora molto, e non se ne fanno una ragione, anzi, ne fanno un caso pubblico, bisogna per forza cambiare discorso. Significa che la situazione è peggio che viziosa: è perversa. Si leggono reazioni di ogni tipo, è faticoso distinguerle e sgrossarle dal pregiudizio e dal tifo, dalle simpatie (siamo ai minimi sindacali) e dalle antipatie. C’è una convocazione generale allo sfascio, perché ognuno ha una sua parte di guadagno: le società che vogliono una Nazionale politicamente debole (mentre Conte è uomo forte, che rafforza, che obbliga la Figc a schierarsi), e c’è un ct che sembra camminare sul sentiero del dubbio più grande, come se il tarlo della scelta sbagliata avesse già fatto molta strada nella sua testa. E c’è un sistema mediatico che si nutre di polemiche, anche penose.
Questa è penosa, perché aggroviglia molti difetti e corrobora i peggiori interessi dei protagonisti, intinge su argomenti sterili (perfino fasulli, per fortuna: Marchisio è un ottimo giocatore e una bella persona. Ed è un’atleta sano) ed evita la polpa dei problemi seri, che sono lì, stesi al sole, ignorati. Infatti la chiudo qui, temendo di averla già fatta lunga, e assumo solo lo stupore demagogico dell’insopportabile fastidio verso “il troppo lavorare”: facile per gli Elkann, parlare così.
E il discorso cambia, davvero, e ringrazio Giampiero Timossi, per l’assist (involontario). Mi ha destato in un articolo recente, proprio su Calciomercato.com, nel quale sconsiglia a Maurizio Sarri di approdare a Milano, ricordando la parabola di un grande toscano: Luciano Bianciardi, la sua vita agra, i tormenti di un arrivo in città pieno di speranze rimpiazzate via via dalle frustrazioni. La fiamma della rivoluzione è soffocata dalla città, dagli intrighi, dalla dis-integrazione dello scrittore. Suggestivo l’accostamento con Sarri, che in sé racchiude una diversità biografica e stilistica. Tutti ormai ne conoscono la carriera concreta e sudata: anche lui lavora sodo. Sono maremmano e il grossetano Bianciardi è stato il più grande di noi. È morto giovane e non poteva invecchiare: aveva il fegato amaro, avvelenato di rabbia più che di alcol. La bomba che voleva piazzare sotto il Torracchione, per vendicare i minatori di Ribolla, morti per il grisù disse il processo, crepati come sorci per calcolo e interesse del padrone, scrive invece la storia, quella bomba lì gli era rimasta addosso. E la miccia bruciava lenta, incendiata dalla sua vita impossibile, “agra”, riassunse lui in un libro che diventò un bel film di Lizzani, e un titolo che adesso è una frase fatta, La vita agra, appunto.
Luciano conosceva tutti i 43 operai rimasti sotto terra, nella miniera esplosa il 4 maggio del 1953: andava a sedersi fuori, li aspettava, ci parlava, portava loro libri da leggere nei viaggi verso Ribolla, con un bus sgangherato. Li prendeva alla biblioteca di Grosseto, non tutti rientravano: “Meglio un libro rubato che un libro mai letto”, rispondeva agli amministratori zelanti. Il Bianciardi scriveva di loro, dei minatori, la loro miseria, la loro paura nella galleria in cui stavano scavando a fondo cieco, “lo scriva sui giornali: corriamo il rischio di saltare tutti per aria”. Questo accadde. Allora lo scrittore va a Milano, nella città dei padroni della miniera, la Montecatini di sede – appunto – nel Torracchione. E va a morire: ci metterà diciassette anni. Traduce (Miller, Faulkner, tanti altri). Scrive, studia. S’incazza. Dissente. Beve, ma non si corrompe. Trova il successo, cercandolo e odiandolo, e poi rifiutandolo, declina l’offerta di Montanelli di accasarsi al Corriere, si fa licenziare dalla Feltrinelli, perché strascica i piedi, muovendosi piano, “mentre altri erano fannulloni frenetici che riuscivano, non si sa come, a dare l’impressione di star lavorando. Pensa, si prendono pure l’esaurimento nervoso”, ricordò un giorno alla figlia Luciana.
Solo gli intellettuali così puri possono diventare profetici (ma ci vuole tempo). Prima di tutti tratteggiò il carrierismo politico, “arte della conquista e della conservazione del potere”. E pronosticò l’inevitabile cannibalismo consumista, nei “bisogni indotti dalla pubblicità, con i padroni che decidono per noi cosa dobbiamo desiderare”. Questo è il Bianciardi che anticipa e che resta. Ma servirebbe quello scomparso, introvabile, crudo e nudo, che odora di pastrano sdrucito, di polvere e carbone. Che cammina per ballatoi e ciottolati, e spiega perché limando la lingua con il suo stile preciso, nuovo, fantasioso, davvero anarchico, dolce e cinico, un cazzotto e un sorriso, un sogno e un’analisi, un lessico allacciato alla manualità, un frasario che deve qualcosa a Gadda. Nella sua rubrica sul Guerin Sportivo – poco prima di morire - il Bianciardi consiglia ai bambini di leggere Diabolik, «dove il bene in qualche modo vince sul male, dove la donna è forte», invece del libro Cuore, «dove ti affezioni a personaggi che poi muoiono in guerra, straziati, e i bambini poveri restano somari a vita, e quelli ricchi sono i più bravi della classe». Straordinario. Queste voci impastate di vetriolo ed esasperazione sono voci etiche, per questo fondamentali. Possono elevarsi a sincera autobiografia di un popolo, ne fanno parte più di allenatori fortunati o ereditieri applicati. Non c’è niente in cambio per la loro perdita d’innocenza, non c’è alternativa al loro cammino che concima la strada di lavoro e di idee. Non c’è il biglietto di ritorno: una condizione esistenziale drammatica e bellissima. E mi accorgo che già penso a Sarri.
Dovevo arrivarci così, con la biografia dell’altro. Per dimostrarne la necessità. A Milano. O a Roma, o a Napoli. Dove può cambiare il discorso, perché una voce a Empoli fa calore, mentre nella metropoli può fare chiasso, può fare storia. E abbiamo bisogno di queste voci. Abbiamo bisogno di dinamitardi, di idealisti, di rivoluzionari anche velleitari, anche sconfitti in partenza (o vincitori epocali all’arrivo, chissà). Non possiamo accantonarli nella provincia, sperando di proteggerli, fingendo di proteggerli per riparare invece lo status quo. Dobbiamo sperare che accada qualcosa, che taluni detestino l’equilibrio improduttivo, che spostino l’orizzonte per camminarci appresso, come in quella bella frase di Eduardo Galeano sull’utopia, decisiva e inavvicinabile. Siamo abituati ai piccoli conti, ai piccoli vantaggi, a cercare la gente nei soliti posti, dove c’è un guadagno o una rendita da proteggere. Al limite, ogni tanto, c’è qualcuno che c’imbroglia, e confonde e trucca l’anticonformismo per il conflitto.
Sarri non trucca. Vorrei vederlo a Milano, o a Roma, o a Napoli. Per cambiare discorso, smettere di parlare di giocatori da comprare (ne manca sempre qualcuno, anche se sono in 35 per squadra, è vero?), di stage da fare, di infortuni casuali da evitare (e come, stando chiusi in casa?), di Tavecchio e di Lotito, di allenatori “per forza” e altri bulimici, di fuorigioco e di rigori, di società squattrinate e mal governate che prendono un pezzo di quel calciatore, mezzo di quell’altro, cambiano tre portieri e quattro centravanti in un anno. Certo, anche questo è il calcio. Ma c’è anche altro, sono diverse e rumorose le lingue di questo sport. Il calcio di Sarri, la sua piccola storia, è un racconto fervido ma chiaro, appassionato ma non fanatico. È studio, lavoro, fantasia, organizzazione. L’idea che gli sia vietata la grande occasione, per evitargli la “corruzione”, la sconfitta (filosofica), è inaccettabile. È perfino furba, conservativa. Sono solo le false realtà che immediatamente cedono in più punti: come quella, per esempio, d’inventarsi un allenatore scelto fra i giocatori appena dismessi, e fra loro quello con la mano alzata.
Ma non c’è solo il Milan, sono tante le società ambiziose che avrebbero bisogno di cambiare discorso, di uscire dalla logica ineluttabile e perdente della decadenza e degli alibi. L’Inter più compra e meno punti fa (e più compra ancora, perché Mancini è convinto che solo il mercato curi le squadre: son buoni tutti, così). Il Napoli sembra angosciato dal suo limite superiore, che lo prende alle spalle ogni volta che lo avvicina. La Roma ha riscoperto fragilità che credeva superate, e forse erano solo nascoste. Sarri è una possibilità per inventarsi un destino diverso. Ci sono altri bravi allenatori in giro, Mihalovic, Prandelli, Donadoni, Spalletti, qualcun altro si libererà: gente seria che saprebbe fare bene. Ma che rivoluzione sarebbe l’atto di coraggio di raccogliere l’esperienza più sorprende di calcio vista in questi mesi e trasportarla nella grande città, e piegarla ai grandi giocatori. Un rischio, sicuramente, ma l’azzardo è un’idea da periodi “poveri”, quando la moneta non può cambiare l’andazzo e serve l’intuizione, e la fortuna, anche. Quasi trent’anni fa il Milan invertì il suo destino con una scelta folle, se valutata con i criteri pavidi e con i curriculum in mano. Furono gli occhi a scegliere: il Parma di Sacchi giocava un calcio che colpiva, incuriosiva, affascinava. Chi scelse di proporlo a San Siro avviò una stagione storica. E conservò, immortalò quell’idea: come si fa dunque a disperdere la bellezza del calcio che pratica Sarri?
Discuterne la possibilità di adattamento è la perfetta unità di misura della pochezza dei dirigenti, che poi magari affidano gruppi e investimenti milionari ad allenatori immaginari, consumando fallimenti e lasciando niente o poco da ricordare e da tifare. Confinare Sarri alla stravaganza è anche sintomo della sudditanza mediatica e culturale al pensiero dominante, il cedimento alla pigrizia intellettuale, all’abitudine indurita nella testa. È esattamente quell’inerzia che combatteva Bianciardi, restandone intossicato, ma si è sempre in tempo a cambiare discorso.
Marco Bucciantini
Questa è penosa, perché aggroviglia molti difetti e corrobora i peggiori interessi dei protagonisti, intinge su argomenti sterili (perfino fasulli, per fortuna: Marchisio è un ottimo giocatore e una bella persona. Ed è un’atleta sano) ed evita la polpa dei problemi seri, che sono lì, stesi al sole, ignorati. Infatti la chiudo qui, temendo di averla già fatta lunga, e assumo solo lo stupore demagogico dell’insopportabile fastidio verso “il troppo lavorare”: facile per gli Elkann, parlare così.
E il discorso cambia, davvero, e ringrazio Giampiero Timossi, per l’assist (involontario). Mi ha destato in un articolo recente, proprio su Calciomercato.com, nel quale sconsiglia a Maurizio Sarri di approdare a Milano, ricordando la parabola di un grande toscano: Luciano Bianciardi, la sua vita agra, i tormenti di un arrivo in città pieno di speranze rimpiazzate via via dalle frustrazioni. La fiamma della rivoluzione è soffocata dalla città, dagli intrighi, dalla dis-integrazione dello scrittore. Suggestivo l’accostamento con Sarri, che in sé racchiude una diversità biografica e stilistica. Tutti ormai ne conoscono la carriera concreta e sudata: anche lui lavora sodo. Sono maremmano e il grossetano Bianciardi è stato il più grande di noi. È morto giovane e non poteva invecchiare: aveva il fegato amaro, avvelenato di rabbia più che di alcol. La bomba che voleva piazzare sotto il Torracchione, per vendicare i minatori di Ribolla, morti per il grisù disse il processo, crepati come sorci per calcolo e interesse del padrone, scrive invece la storia, quella bomba lì gli era rimasta addosso. E la miccia bruciava lenta, incendiata dalla sua vita impossibile, “agra”, riassunse lui in un libro che diventò un bel film di Lizzani, e un titolo che adesso è una frase fatta, La vita agra, appunto.
Luciano conosceva tutti i 43 operai rimasti sotto terra, nella miniera esplosa il 4 maggio del 1953: andava a sedersi fuori, li aspettava, ci parlava, portava loro libri da leggere nei viaggi verso Ribolla, con un bus sgangherato. Li prendeva alla biblioteca di Grosseto, non tutti rientravano: “Meglio un libro rubato che un libro mai letto”, rispondeva agli amministratori zelanti. Il Bianciardi scriveva di loro, dei minatori, la loro miseria, la loro paura nella galleria in cui stavano scavando a fondo cieco, “lo scriva sui giornali: corriamo il rischio di saltare tutti per aria”. Questo accadde. Allora lo scrittore va a Milano, nella città dei padroni della miniera, la Montecatini di sede – appunto – nel Torracchione. E va a morire: ci metterà diciassette anni. Traduce (Miller, Faulkner, tanti altri). Scrive, studia. S’incazza. Dissente. Beve, ma non si corrompe. Trova il successo, cercandolo e odiandolo, e poi rifiutandolo, declina l’offerta di Montanelli di accasarsi al Corriere, si fa licenziare dalla Feltrinelli, perché strascica i piedi, muovendosi piano, “mentre altri erano fannulloni frenetici che riuscivano, non si sa come, a dare l’impressione di star lavorando. Pensa, si prendono pure l’esaurimento nervoso”, ricordò un giorno alla figlia Luciana.
Solo gli intellettuali così puri possono diventare profetici (ma ci vuole tempo). Prima di tutti tratteggiò il carrierismo politico, “arte della conquista e della conservazione del potere”. E pronosticò l’inevitabile cannibalismo consumista, nei “bisogni indotti dalla pubblicità, con i padroni che decidono per noi cosa dobbiamo desiderare”. Questo è il Bianciardi che anticipa e che resta. Ma servirebbe quello scomparso, introvabile, crudo e nudo, che odora di pastrano sdrucito, di polvere e carbone. Che cammina per ballatoi e ciottolati, e spiega perché limando la lingua con il suo stile preciso, nuovo, fantasioso, davvero anarchico, dolce e cinico, un cazzotto e un sorriso, un sogno e un’analisi, un lessico allacciato alla manualità, un frasario che deve qualcosa a Gadda. Nella sua rubrica sul Guerin Sportivo – poco prima di morire - il Bianciardi consiglia ai bambini di leggere Diabolik, «dove il bene in qualche modo vince sul male, dove la donna è forte», invece del libro Cuore, «dove ti affezioni a personaggi che poi muoiono in guerra, straziati, e i bambini poveri restano somari a vita, e quelli ricchi sono i più bravi della classe». Straordinario. Queste voci impastate di vetriolo ed esasperazione sono voci etiche, per questo fondamentali. Possono elevarsi a sincera autobiografia di un popolo, ne fanno parte più di allenatori fortunati o ereditieri applicati. Non c’è niente in cambio per la loro perdita d’innocenza, non c’è alternativa al loro cammino che concima la strada di lavoro e di idee. Non c’è il biglietto di ritorno: una condizione esistenziale drammatica e bellissima. E mi accorgo che già penso a Sarri.
Dovevo arrivarci così, con la biografia dell’altro. Per dimostrarne la necessità. A Milano. O a Roma, o a Napoli. Dove può cambiare il discorso, perché una voce a Empoli fa calore, mentre nella metropoli può fare chiasso, può fare storia. E abbiamo bisogno di queste voci. Abbiamo bisogno di dinamitardi, di idealisti, di rivoluzionari anche velleitari, anche sconfitti in partenza (o vincitori epocali all’arrivo, chissà). Non possiamo accantonarli nella provincia, sperando di proteggerli, fingendo di proteggerli per riparare invece lo status quo. Dobbiamo sperare che accada qualcosa, che taluni detestino l’equilibrio improduttivo, che spostino l’orizzonte per camminarci appresso, come in quella bella frase di Eduardo Galeano sull’utopia, decisiva e inavvicinabile. Siamo abituati ai piccoli conti, ai piccoli vantaggi, a cercare la gente nei soliti posti, dove c’è un guadagno o una rendita da proteggere. Al limite, ogni tanto, c’è qualcuno che c’imbroglia, e confonde e trucca l’anticonformismo per il conflitto.
Sarri non trucca. Vorrei vederlo a Milano, o a Roma, o a Napoli. Per cambiare discorso, smettere di parlare di giocatori da comprare (ne manca sempre qualcuno, anche se sono in 35 per squadra, è vero?), di stage da fare, di infortuni casuali da evitare (e come, stando chiusi in casa?), di Tavecchio e di Lotito, di allenatori “per forza” e altri bulimici, di fuorigioco e di rigori, di società squattrinate e mal governate che prendono un pezzo di quel calciatore, mezzo di quell’altro, cambiano tre portieri e quattro centravanti in un anno. Certo, anche questo è il calcio. Ma c’è anche altro, sono diverse e rumorose le lingue di questo sport. Il calcio di Sarri, la sua piccola storia, è un racconto fervido ma chiaro, appassionato ma non fanatico. È studio, lavoro, fantasia, organizzazione. L’idea che gli sia vietata la grande occasione, per evitargli la “corruzione”, la sconfitta (filosofica), è inaccettabile. È perfino furba, conservativa. Sono solo le false realtà che immediatamente cedono in più punti: come quella, per esempio, d’inventarsi un allenatore scelto fra i giocatori appena dismessi, e fra loro quello con la mano alzata.
Ma non c’è solo il Milan, sono tante le società ambiziose che avrebbero bisogno di cambiare discorso, di uscire dalla logica ineluttabile e perdente della decadenza e degli alibi. L’Inter più compra e meno punti fa (e più compra ancora, perché Mancini è convinto che solo il mercato curi le squadre: son buoni tutti, così). Il Napoli sembra angosciato dal suo limite superiore, che lo prende alle spalle ogni volta che lo avvicina. La Roma ha riscoperto fragilità che credeva superate, e forse erano solo nascoste. Sarri è una possibilità per inventarsi un destino diverso. Ci sono altri bravi allenatori in giro, Mihalovic, Prandelli, Donadoni, Spalletti, qualcun altro si libererà: gente seria che saprebbe fare bene. Ma che rivoluzione sarebbe l’atto di coraggio di raccogliere l’esperienza più sorprende di calcio vista in questi mesi e trasportarla nella grande città, e piegarla ai grandi giocatori. Un rischio, sicuramente, ma l’azzardo è un’idea da periodi “poveri”, quando la moneta non può cambiare l’andazzo e serve l’intuizione, e la fortuna, anche. Quasi trent’anni fa il Milan invertì il suo destino con una scelta folle, se valutata con i criteri pavidi e con i curriculum in mano. Furono gli occhi a scegliere: il Parma di Sacchi giocava un calcio che colpiva, incuriosiva, affascinava. Chi scelse di proporlo a San Siro avviò una stagione storica. E conservò, immortalò quell’idea: come si fa dunque a disperdere la bellezza del calcio che pratica Sarri?
Discuterne la possibilità di adattamento è la perfetta unità di misura della pochezza dei dirigenti, che poi magari affidano gruppi e investimenti milionari ad allenatori immaginari, consumando fallimenti e lasciando niente o poco da ricordare e da tifare. Confinare Sarri alla stravaganza è anche sintomo della sudditanza mediatica e culturale al pensiero dominante, il cedimento alla pigrizia intellettuale, all’abitudine indurita nella testa. È esattamente quell’inerzia che combatteva Bianciardi, restandone intossicato, ma si è sempre in tempo a cambiare discorso.
Marco Bucciantini