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    Bucciantini: Montella, ti ricordi Irureta?

    Bucciantini: Montella, ti ricordi Irureta?

    Lo promise e lo fece. A piedi fino alla Cattedrale di San Giacomo, la tappa finale del pellegrinaggio verso Santiago de Compostela. Certo, Javier Irureta partì da vicino: la Coruna è grossomodo a settanta chilometri dal santuario. E poi lui aveva promesso: “Se rimontiamo, ci vado camminando sulle ginocchia”. In poche parole, non ci credeva. Eppure.

    LA PROMESSA DI IRURETA E IL SUPERDEPOR BATTE IL MILAN - Il Deportivo vinse 4-0 con il Milan, il Milan quello vero, di Ancelotti e Kakà, Pirlo e Seedorf, Nesta e Maldini, e Shevchenko, e poi quando divenne disfatta entrarono anche Rui Costa e Inzaghi, senza rimedio. Anche il Deportivo era cosa vera, in quegli anni s’infilò fra il Real dei galattici e il Barcellona, vinse un Campionato, si piazzò per un lustro nelle prime tre, vinse la Coppa del Re e fece due quarti di finale in Champions League, e una semifinale: quella. Ma raccontarla così è come togliere il sale: all’andata il Milan aveva vinto, dominato, 4-1. Per questo Irureta, il tecnico del Deportivo, s’immolò a quel tipo di promessa che poi devi mantenere, perché solletica il sacro, il sacrificio e la fede e la tenacia di molte persone. “Lo farò de rodillas”, azzardò: “in ginocchio”. Ci andò a piedi, partendo dalla città sulla rias, s’avviò pochi giorno dopo quella vittoria, smezzò il cammino in due tappe, 37 chilometri un giorno, 33 quello dopo. Irureta è un volto perduto così come era invece profetico in quegli anni. È un basco di Guìpuzcoa, da calciatore aveva un fisico asciutto, ossuto, un gioco veloce da punta d’appoggio e una faccia da schiaffi, alla Jean Paul Belmondo. In panchina divenne via via più bonario, più “tondo”, anche nelle espressioni, e gli occhiali ovali di montatura leggera lo inquadravano più come un vecchi professore stanco. 

    Il ricordo non serve a torturare i milanisti, che in quei meravigliosi anni raccolsero due Champions (e ne mollarono altrettante: questa del Riazor – comunque ancora “lunga” - e quella di Istanbul contro il Liverpool, altra folle rimonta subita, addirittura dentro la stessa partita). Torture sportive dunque mescolate a piaceri e delizie assolute. Il ricordo serve a introdurre la partita della Fiorentina, razionalmente impossibile, ma lo sport sussulta anche di serate emotive, drammatiche, esaltanti. Per la qualità dei gruppi, la distanza fra i viola e il Siviglia è minore di quella fra rossoneri e galiziani, soprattutto per il pregio ineguagliabile dell’organico che fu di Ancelotti, va detto. Ma non è un fatto tecnico, e marginalmente sarà un fatto tattico. Per costruire la rimonta serve un concorso di virtù e sentimenti da una parte, e di momentanee debolezze dall’altra, e sono cose che si possono scoprire solo dentro il campo, non esistono sulla lavagna.

    MIRACOLI E REPUTAZIONE - La Fiorentina e Firenze devono edificarsi un ricordo positivo di questa coppa. Non per forza ribaltare lo 0-3 andaluso, ma uscire bene, al limite, da un’avventura che ha dato valore al gruppo e al suo tecnico. Basta pensare che in due anni e in 26 partite quella di Siviglia è l’unica sconfitta in trasferta. La Fiorentina deve proteggere questa probabile retrospettiva. Un epilogo come quello galiziano faciliterebbe la glorificazione dei protagonisti, ma un tracciato contrario non può distruggere o consumare la reputazione di Montella, l’artefice di questi tre anni di lavoro e di risultati: non ci sarebbero trofei da spolverare, e dunque date da appuntare nella storia dei vincitori. Ma c’è – evidente – una dimensione ritrovata, la Fiorentina per due anni al quarto posto in campionato (due piazzamenti identici ma guadagnati e vissuti diversamente, perché la prima volta fu una qualificazione Champions forse meritata, e persa negli ultimi discussi minuti), e anche quest’anno più controverso e complicato, comunque è 5°: che in fondo è il piazzamento nello “storico” dei punti in Serie A, quella gigantesca e impura classifica che somma tutti i punti di tutte le squadre da quando esiste il girone unico: Juventus, Inter, Milan, Roma e Fiorentina, appunto, che ha mancato sei massimi tornei ma la media punti (sulle partite effettivamente giocate) consegna la stessa identica classifica, almeno al vertice. 

    MONTELLA, IL GIOCO COME PUNTO DI RIFERIMENTO - Montella ha ritrovato questo posto ed è stata una ricerca “pura” in quanto subordinata al “modo”. La squadra è stata connotata di uno stile certo, più fluido e baldanzoso il primo anno, più manierista il secondo, più mosso e diseguale in questa stagione: in generale, gli impegni europei hanno giocoforza stancato e “rallentato” la manovra, ed è stato più semplice per gli avversari prendere le contromisure. La Fiorentina è permeata di un’identità e di una mentalità “corale” e infatti la Fiorentina fatica a difendere risultati per inerzia, per esperienza, per mestiere: tutto è organico, e spesso più precario. Il punto di riferimento è stato il gioco, non il giocatore. Solo Giuseppe Rossi nell’andata del 2014 aveva aggiunto decisamente qualcosa, semplificando le partite. Montella ha da subito cercato la metà campo avversaria, piazzando lì dentro il suo regista, Pizarro, e intorno gli altri. Ha inteso possedere il campo di passaggi, trame, palla a terra e quando è riuscito in ampiezza e profondità, questo sistema si è elevato a “estetica” del calcio. Il Barcellona era lo spunto, ma essendoci meno qualità nei giocatori, c’era una maggiore preoccupazione nel cercare il tiro e nel portare uomini verso la porta. Purtroppo, la balistica è stato un pregio solo di Rossi, gli altri non sono produttori di reti. Gomez, al limite, è un terminale, ma va imboccato bene, da solo non si apparecchia il gol. Almeno, non il Gomez visto nell’edizione fiorentina.

    IL MARCHIO DELL'AEROPLANINO - Sì, la Fiorentina di Montella è nota a tutti. È un marchio autentico, riconoscibile, dove il tutto ha permesso un risultato maggiore della somma dei singoli. Un’idea limpida, il tecnico è grossomodo apprezzato e benvoluto dagli addetti ai lavori. Sostenuto da un pregiudizio positivo, cosa rare, nel calcio. Ma discusso da dentro, da una società dove non è facile distinguere un intento comune, una visione lunga. E accompagnato da un crescente brusio di fondo nella città dove lavora, invogliata dalle possibilità di una bella squadra, forse ingannata da questo, tanto da non percepire una solida posizione di vertice in tutte le competizioni affrontate: avvicinarsi ai trofei spesso aumenta il desiderio e la frustrazione di non saperli o poterli vincere. Così è contestato a Montella il cattivo uso degli attaccanti, deperiti da quella manovra avvolgente, continua, un po’ ottusa, abile a occupare il campo altrui ma anche a intasarlo, a togliere dunque metri e spazi per i duelli degli avanti, a ritardare tempi di gioco perfetti per un centravanti. Questo va confutato, con la forza della verità. È vero il contrario, Montella esalta gli attaccanti. Con lui Ljajic e Cuadrado hanno segnato 11 gol in un campionato (nel 2012-13 il serbo, l’anno dopo il colombiano), record personale, e sarà curioso valutare se saranno mai ritoccati, questi record. Si obietterà: ma questi sono attaccanti esterni, chi va in crisi con Montella sono i centravanti. Un attimo: Pepito ha giocato quattro mesi da centravanti, per l’assenza di Gomez. Unica punta, con Ilicic attorno e Borja d’inserimento (cioè, senza veri attaccanti di sostegno e densità): in quei mesi, Rossi era capocannoniere, e dopo due anni senza calcio poté vantare una media incredibile di un gol a partita. Da prima punta. Eccola, la pedante obiezione: ma Rossi è un attaccante particolare, anche se gioca da prima punta. Cosa significa particolare? Pensa da prima punta pur con un fisico diverso, pur rifiutando l’area come zona di sosta o di partenza. Esattamente come Tevez, o Messi, o Ronaldo, o Griezmann e chissà quanti altri superbi goleador che sono nettamente i marcatori principali delle loro squadre, con o senza centravanti in zona. Una squadra deve favorire la rete dei propri interpreti. Ah, ecco il punto dei detrattori: la Fiorentina penalizza il suo giocatore che adesso potrebbe fare i gol decisivi, Gomez. 

    IL CASO GOMEZ - Falso anche questo. Anzi, pretestuoso per indebolire le ragioni del tecnico, per scatenare la più assurda dialettica, e preparare la più insensata scelta: l’anno prossimo o Montella o Gomez (e ci mancherebbe avere dei dubbi). Quando Montella si è servito dei centravanti classici, questi hanno segnato: Toni, il primo anno, si divise il posto con Ljajic, offrendo due modi tattici differenti di chiudere la manovra. E Toni, seppur rientrato dallo svacco arabo, quando giocava, segnava. Gli otto gol di Luca valgono i 20 di Verona (nel doppio delle partite da titolare, e onestamente da mattatore assoluto del reparto). Quella stagione, il reparto d’attacco dei viola segnò 42 reti in campionato (su 72 complessive). L’anno successivo fra campionato, coppa Italia e Europa League, gli attaccanti hanno segnato 60 gol (su 92 di squadra). Un tipetto come Matos, per dire, ha segnato (guarda un po’, da prima punta) gli unici 3 gol della sua giovane e avara carriera. Anche in quest’annata complicata da incertezze (Rossi doveva esserci, non c’è mai stato), infortuni (Gomez a singhiozzo, Babacar idem), tentativi esotici (Marin, e poi i rientri di Diamanti e Gilardino), il reparto ha sfornato comunque 49 reti, fra tutte le competizioni. Chi attribuisce a Montella le oggettive difficoltà dell’attaccante più “pesante” nei libri aziendali, quel Mario Gomez comprato per aumentare la caratura di squadra, il livello “europeo” dei viola, l’impatto nelle sfide dirette con le grandi (tutte prospettive disilluse dalla sconfortante timidezza agonistica di Gomez) continua a insistere sulla tipicità del tedesco: centravanti iper classico, di stazza e di presenza in area. Dunque, va servito in un certo modo: basta osservare gli ultimi errori, su traversoni precisi per la testa o i piedi, o lanciato nella profondità a Siviglia (pallone in curva, ed era un pallone importante). Semmai, è il tempo d’azione che potrebbe aiutarlo. È indubbio che Gomez preferisca duelli con pochi avversari, anzi, a vedere i suoi gol bavaresi, preferisce i gol semplici, già pronti, con i difensori disorientati dall’azione di Robben o Ribey. Ma non tutti hanno Robben e Ribery, e arrivare in area diventa più faticoso. E la Fiorenitna fa il giro palla, arriva in area da ferma: questo l’unico vago alibi per Gomez, che sarebbe però incompatibile con tutto il resto dell’organico, e sarebbe comunque un’incomunicabilità dovuta anche alle limitatezze tecniche e tattiche di un giocatore da 4,5 milioni di stipendio annui. La verità è che a differenza di Toni (che si esalta nei duelli corpo a corpo, che usa il fisico altrui come leva, come misura), Gomez soffre la marcatura. Non è sereno nemmeno se deve gestire un disimpegno, sapendo di avere il difensore appresso. Finendo per affondare una buona metà delle manovre che lo chiamano in causa in momento diverso che non sia la finalizzazione. Rallentando quella manovra che potrebbe aiutare a sveltire, anche per suo guadagno. Lo penalizza l’esasperazione tattica del calcio italiano, al limite, e non la cifra della sua squadra. In sua assenza la palla scorre più fluida, e arriva in area con tempi di gioco più scanditi. Gomez è un po’ vittima di se stesso. E come si è detto parlando del suo Bayern, il fatto che possa essere usato solo come realizzatore è utopico, nemmeno la Juventus permette al centravanti un lavoro così parcellizzato (anzi, spesso se ne serve per avvalorare Tevez). In più, ancora i numeri: impiegando l’attaccante vecchio stile, il centravanti classico in posizione centrale (insomma, colui che Montella deprimerebbe), la Fiorentina ne ha ricavato in campionato 13 gol: i 4 di Gomez, i 7 di Babacar, i 2 di Gilardino: esattamente il bottino dei centravanti dei campioni d’Italia (Morata e Llorente, 7+6). Nessuno dei viola ha infilato rigori (sbagliati sì, 1 Gomez e 1 Babacar). Quindi il bottino è in linea con gli altri centravanti, intestatari singoli del ruolo, spesso rigoristi. Probabilmente con maggiore continuità fisica, e una padronanza più sicura del ruolo, i gol dei viola sarebbero stati perfino di più. Salah e l’ultimo, tardivo Ilicic stanno aggiungendo le reti da seconda punta, o da attaccante esterno. Anche il contributo del “compagno” di reparto in questo allineamento classico è in linea con il resto delle squadre: la differenza è che a Firenze i gol si diffondono su più giocatori (troppi, davvero: non si affronta una stagione anche complessa con 9-10 giocatori di reparto). Ma va ricordato che una squadra che differenzia i suoi gol fra molti giocatori e fra molte tipologie diverse di giocatore e di preparazione è semplicemente più fantasiosa, più ampia, più imprevedibile di chi confeziona lo stesso numero di gol da molti meno terminali. Se i gol di reparto sono 50, forse è meglio arrivarci con 5 giocatori e alternarli per avere più possibilità tattiche che appiattirli su una prolifica coppia-gol, anche se questa dà riferimenti più robusti al resto della squadra. E si può ragionevolmente ricordare che una squadra che cerca il gol in modo troppo organico finisce per affaticare e sguarnire la fase difensiva: questo semmai il difetto che ancora tiene lontani i viola dai traguardi massimi. 
    Questioni aperte, ma resta il punto di fondo che i numeri sconfessano le dicerie contro Montella, capace di esaltare gli attaccanti, di elevarli perfino a media gol mai raggiunte. Quel tecnico è il maggior capitale di Firenze (la cessione di un supervalutato Cuadrado lo dimostra). Montella è proprio la più tenace speranza per la rimonta. Tutto sommato, il santuario della Madonna della Grazie, a Montenero, è lontano giusto una settantina di chilometri.

     

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