Bernardini: Best, quanto ci manchi
Nutro parecchi e seri dubbi sull’esistenza di Dio il quale in ogni caso non potrebbe mai essere quel triangolo con un occhio in mezzo che farebbe paura non soltanto ai bambini. Come il professor Veronesi, sono portato a immaginare un dio della termodinamica anche lui inconsapevole del tutto e del niente in un universo rischiarato esclusivamente da quelli che noi chiamiamo ricordi. Energia pura e vibrazioni. Ecco, noi viviamo per ricordare chi ci ha preceduti e in quel modo regaliamo l’eternità a chi, prima di noi, è stato passeggero su questo nostro mondo. Così mi piace rispondere al gentile lettore che, in calce all’articolo che ho scritto su Edoardo Agnelli, mi rimproverava il rumore invocando il silenzio come estremo omaggio ai defunti. Ebbene, se davvero nessuno parlasse più di noi anche soltanto mentalmente e con il cuore, allora saremmo veramente morti per sempre. Mica bello.
E morto non sarà mai George Best il piccolo grande uomo del leggendario Manchester United il quale costrinse, un giorno, il mitico Pelè a confessare che “Tra quel genio di nordirlandese e il sottoscritto non potrebbe mai esserci partita. Vince lui che è il più grande del mondo”. Cosa aveva fatto di tanto speciale quel folletto alto un metro e settantaquattro eppure saldo e tosto come un soldatino di ferro per meritare una simile celebrazione? Ciò che aveva voluto. Sempre. Soprattutto si era divertito a destreggiarsi con un pallone allo scopo preciso di divertire gli altri. Nel contempo non aveva mai rinunciato per un solo nano secondo a giocare a dadi con la vita cercando di fregarla a suo vantaggio In maniera originale, unica, solitariamente stupenda e assolutamente spericolata come canta Vasco. Figlio degli Anni Sessanta, verrebbe da dire. Macchè. Semmai padre e padrone di quel decennio da matti tanto bello e colorato da meritare le canzoni dei Beatles e la fantasia al potere.
Il calciatore Best, pardon il campione, e l’uomo George esattamente e onestamente speculari e impegnati a produrre prima per sé e poi anche per il suo pubblico innamorato effetti speciali che nessuno avrebbe potuto mai copiare. Neppure il più abile dei plagiari. Il campione con la maglia del United, gol su gol, magie su magie, emozioni su emozioni così intense da mettersi a piangere per la gioia. L’uomo seduto sulla sua Aston Martin oppure al bancone di un pub o ancora sdraiato e nudo sopra un letto rotondo a diverse piazze. Mai da solo. Strafighe da togliere il fiato e anche un mare di sterline. Spesso ubriaco da non potersi reggere in piedi. Guadagnò talmente tanti quattrini da poter mantenere almeno te generazioni. Morì in ospedale povero in canna. Mai pentito, però. Forse, al limite, un poco dispiaciuto. Dicono che oggi, calcisticamente parlando, uno come George Best non potrebbe esistere per il semplice fatto che il calcio è più che altro per ragionieri e per ingegneri o ben che vada per scienziati del pallone tutti regole precise e moralità ortodossa. Non so. Forse è davvero così. Ma allora lasciatemi dire: che tristezza e che pena! Una cosa è impossibile negare. Ci manchi tanto, best George.
Marco Bernardini