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    Da HH a de Boer fino a Bersellini, sergente di ferro significa scudetto

    Da HH a de Boer fino a Bersellini, sergente di ferro significa scudetto

    • Marco Bernardini
    Il campionato non è il Vietnam e una partita non è la battaglia di Hue. Eppure  pare che, specialmente all’Inter, i giocatori fatichino più del dovuto a comportarsi in maniera professionalmente adeguata se non vengono strapazzati, sette giorni su sette, come accadeva ai marines americani nel famoso film di Kubrick “Full metal Jacket” destinati per l’addestramento a subire i metodi spicci e talvolta off limits del sergente maggiore Hartman.

    Con l’arrivo di Frank De Boer, sessantatreesimo allenatore ufficiale dalla fondazione della società nerazzurra a oggi, sembrano essere tornati i tempi dei mister di ferro e con gli occhi di ghiaccio che di fatto contribuirono a scrivere pagine di belle storie e di grande storia nel romanzo a puntate di una fra le squadre più famose in Europa. Se questo signore del calcio, cresciuto all’ombra del gioco totale ed esteticamente intrigante dei lancieri olandesi eppoi strada facendo convertitosi a una filosofia forse meno affascinante per la vista ma certamente più produttiva in termini pratici, sia oppure non l’uomo giusto per la rifondazione nerazzurra è ancora piuttosto presto per dirlo. Tuttavia, almeno sulla carta, i presupposti per fare in modo che il popolo interista torni ad assaporare il dolce gusto del successo dopo stagioni di amaro in bocca ci dovrebbero essere tutti.

    Poche e semplici le regole scritte nella Bibbia personale di De Boer. Vietato specchiarsi e fare i narcisi. Rispetto per la professione e per chi paga profumatamente attraverso comportamenti di vita, non solo di campo, degni di uomini maturi. Esclusi, tassativamente, capricci assortiti e occhi pesti al mattino per via di notti troppo audaci. Condividere con i compagni la massima tutti per uno e uno e tutti. Faticare possibilmente in silenzio. Attenersi minuziosamente agli orari di lavoro. Non confondere quel poco di celebrità ottenuta grazie al calcio con il diritto di volare sopra la testa della gente. In allenamento e in partita possibilmente dare il centodieci e cento. Prendere atto che l’allenatore  comunque un superiore e non può e non deve essere un amico di camerata. Chi non si attiene a queste regole elementari può strasene in tribuna o anche a casa. Per i peccati veniali scatta la multa pecuniaria alla quale tutti  i calciatori sono piuttosto sensibili.

    Intendiamoci, sotto il sole del buon senso e dell’etica professionale (tutte le professioni, naturalmente) in realtà non riluce nulla di particolarmente innovativo. La figura del sergente di ferro presente sulla panchina dell’Inter, seppure evento raro, non poi così originale e guarda caso va a coincidere con i temi di maggior fulgore per la squadra nerazzurra. Helenio Herrera, Josè Mourinho, Giovanni Trapattoni, Eugenio Bersellini, Gigi Radice e se vogliamo anche la meno fortunata esperienza di Hector Cuper, sono i nomi e i cognomi di quei mister che, puntualmente, a chi chiedeva loro il perché di certe ed eventuali crisi del tal giocatore o del tal altro rispondevano: ”Signori, io di professione faccio l’allenatore di calcio e non lo psicologo”. Anche se poi, andando bene a vedere, dietro il loro lavoro di sergenti senza pietà c’era molta psicologia e attenzione per l’uomo oltre al calciatore.

    Un lavoro che, per avere successo, comporta tempo e molta pazienza. Da parte di tutti. Concedere questo normale privilegio a Frank De Boer è il minimo che si possa fare.
     

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