Timossi: nuovi stadi e vecchie ipocrisie
Quando lavoravo alla Gazzetta dello Sport venni più volte inviato a raccontare il mondo ultrà: regolamenti di conti tra i tifosi del Milan, pistolettate e teste fracassate, faide che in teoria non avrebbero nulla da spartire con il calcio. Mi capitò anche di trascorrere un'intera giornata con gli ultrà dell'Atalanta e il loro leader storico, il giardiniere Bocia. La sua storia giudiziaria racconta di una testa calda, la mia inchiesta sulla faida milanista non mi presentò come un amico della causa. Detto questo il Bocia e i suoi furono prima diffidenti, poi aperti, quasi accoglienti, certo mai minacciosi. Si bevve molto e quello resta certamente l'articolo più alcolico in venticinque anni di mestiere. Fuori faceva freddo, io scrissi nella mia camera d'albergo, al Cappello d'Oro, incendiato dal vino rosso della bergamasca (ricordo ancora un mitico Serafò). Scrissi, inviai il pezzo e mi accascia sul letto, risvegliandomi solo la mattina dopo, senza un filo di mal di testa. Quel pezzo fece discutere, lo lessero in molti, non piacque praticamente a nessuno. Divise, comunque. Non piaceva agli ultrà, perché sottolineava la loro missione nella caccia agli scontri, «è così, ma non lo diciamo», forse non da sobri. Non piacque ai lettori della Gazza, «perché se fosse ancora stato direttore Cannavò quel pezzo non sarebbe mai uscito». Però il cielo (e il patto di sindacato RCS) vollero che direttore fosse quel genio di Carlo Verdelli e quindi il pezzo venne pubblicato. Era il novembre del 2007 e quella storia mi è tornata in mente domenica scorsa, quasi otto anni dopo. Perché credo che enfatizzare la normalità sia solo un'altra sfumatura dello stesso sistema, quello che impone di nascondere la verità, sostenendo che non valga la pensa conoscerla. Per me tutto merita di essere conosciuto e poi raccontato, come meglio si può. Conoscere non significa avvallare, condividere.
Se non conosci, non puoi capire. Per esempio perché, quest'estate, alcuni tifosi del Bologna fecero brutalmente a cazzotti con certi sostenitori dello Spezia, anche se era solo calcio d'agosto, anche se in palio non c'era nulla. Storie analoghe, sempre nei giorni del precampionato, hanno visto protagonisti i tifosi della Lazio, ma quella che sembrava un'estate rovente per il momento si è trasformata in altro. Nella normalità.
Non ci sono ricette per sconfiggere definitivamente la violenza che può generare l'incontro tra due tifoserie avversarie. Alcuni raccontano che in Inghilterra il fenomeno sia stato debellato, ma forse dimenticano quello che combinano i tifosi inglesi quando seguono la loro nazionale all'estero. E leggendo le cronache dei tabloid scopri che quegli stessi hooligan che prima si disintegravano allo stadio, ora combattono in altri luoghi della città e usano i social per fissare gli appuntamenti delle loro battaglie. Dire che non è la stessa cosa, dire chi se ne frega visto che così lo spettacolo del calcio non viene rovinato, è per me inaccettabile quando ipocrita. Dire che solo nuovi stadi, anche in Italia, possono definitivamente sconfiggere la parte più violenta del calcio è invece un'altra cosa. È una menzogna, è ipocrisia. Basta ricordare quello che è accaduto il 21 settembre scorso a Marsiglia. Il Velodrome, la tana dll'OM, non è più un impianto enorme e fatiscente. Ora è un avveniristico stadio pronto a ospitare i prossimi Europei, estate 2016. Bene, in tanta raffinata bellezza, durante la sfida tra Olympique Marsiglia e Lione, i tifosi di casa hanno lanciato in campo qualsiasi cosa e impiccato il manichino di Mathieu Valbuena, tornato nel suo ex stadio e considerato il peggiore dei traditori. Stadi nuovi non bastano per sconfiggere la violenza, bastano però per arricchire chi li dovrà costruire. Per rendere il calcio migliore basta rendere migliore il Paese. Nell'attesa state buoni, se potete.
Giampiero Timossi