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The 'greatest' Alì, i pugni della libertà
Era il mese di ottobre del 1974. Gianni Minà, allora mio buon amico e giornalista "off limits" per i canoni tradizionali dell’informazione, mi aveva fatto un regalo meraviglioso. Un biglietto aereo, con pacchetto di soggiorno per una settimana, destinazione Kingshasa. In quella città dell’Africa Nera per eccellenza era in programma il match del secolo del pugilato che avrebbe visto sfidarsi sul ring Mohammed Alì e George Foreman. Un appuntamento che andava ben oltre lo sport e che, di fatto, rappresentava il confronto tra le due anime della negritudine americana. Quella simboleggiata da Foreman, uomo di colore che aveva "venduto" l’anima ai bianchi. Quella rappresentata da Alì il quale, pur di portare avanti la sua battaglia per la libertà di un popolo, aveva subito anche l’umiliazione del carcere. Il mondo dei media si preparava per ritrovarsi a bordo ring in quella notte destinata a scrivere un pezzo di storia del mondo. Anche io avevo la valigia pronta e il cuore in tumulto, ma quattro giorni prima della partenza (l’incontro era in programma per il 30 del mese) nella notte venni messo kappaò da una violenta colica di reni e finii in ospedale per i necessari controlli. Gianni Minà raggiunse Kinshasa insieme con il grande scrittore americano Norman Mailer che su quell’evento produsse un prezioso libro-documento dal titolo "Il match". Ancora oggi ho nelle orecchie l’urlo oceanico delle trecentomila persone che, radunate nella piana dove era stato piazzato il ring, urlavano compatte "Alì boma yè" ovvero "Alì uccidilo". Lui obbedì in parte limitandosi a demolire l’avversario come raccontava la radiocronaca di Paolo Rosi. La televisione già allora, tanto per cambiare, aveva capito niente e non aveva inviato la sua troupe per la diretta. Una fra le più grandi occasioni della mia vita. Mancata in pieno, accidenti.
Poi non ci furono più altre occasioni memorabili come quella. Il tempo passava e Alì, lentamente ma inesorabilmente, scivolava in discesa spinto soprattutto da quella malattia il cui primo segnale si era fatto sentire l’undici dicembre del 1981 al termine di un incontro inutile tra il campione e un signor nessun Trevor Berbick. Alì perse, ma non fu la sconfitta a far preoccupare lo storico manager Angelo Dundee. "Alla fine del match, nello spogliatoio, notai che Alì tremava al punto da lasciar cadere gli oggetti che aveva in mano", rammentava Angelo. Era il signor Parkinson, maledetta creatura, che bussava alla porta di "The Greatest", del migliore. Lento, ma spietato quel male figlio dei troppi pugni presi. Eppure lui ha saputo resistere ancora per trentacinque anni prima di cedere e dover alzare bandiera bianca lasciandosi alle spalle tre mogli, sette figli e un oceano di ricordi.
Alì forever. Alì per sempre, nelle fotografie e nelle parole di un’esistenza a dir poco leggendaria. Quella del 1960, a Roma, con al collo la medaglia d’oro di campione Olimpico alla quale fecero seguito, scandite dal metronomo della potenza dei pugni e dell’eleganza delle movenze simili a quella della gazzella, le immagini delle sue 54 vittorie e dei suoi trentasette avversari finiti anzitempo kappaò. Ma il pugno più duro, più violento e più moralmente giusto fu quello che Alì rifilò al mento dell’America perbenista, razzista, colonialista e puritana che lo aveva condannato al carcere perché renitente alla leva e obiettore di coscienza rispetto all’orrore della guerra in Vietnam. Diceva: "Sapete dove si trova il Vietnam? Io sì. Soltanto in televisione". Poi aggiungeva: "Io non ho proprio nulla contro i vietnamiti. Loro non mi hanno mai definito negro". Che bello poterlo ascoltare mentre parlava. Dovrò accontentarmi di immaginare le sue frasi e la sua voce. Pazienza. Ma forse non sarà poi così complicato sentirlo ancora.