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    Spalletti, hai cambiato la mentalità della Roma. Ma ora serve vincere!

    Spalletti, hai cambiato la mentalità della Roma. Ma ora serve vincere!

    • Matteo Quaglini
    Si discute nell’enclave romanista, si dibatte sul gioco. Sulla sua qualità, sulla sua estetica e oggi, sulla sua conversione quasi religiosa alla praticità e all’essenziale. Un passo indietro è necessario per spiegare come questo sia un conclave, tra le menti del romanismo e tra i tifosi, storico. L’universo romanista ha sempre, fin da Testaccio, sposato la filosofia del bel gioco e della qualità e ha sempre cercato di segnare tanti gol. Simboli questi ultimi del trionfo del bello sul brutto, del successo della filosofia del gioco estetico sul vincere a tutti i costi. Tutti tratti di un Dna spagnolo e olandese per sintetizzare con due accostamenti il processo formativo dell’identità romanista negli ultimi trentasei anni. 

    Una traiettoria costruita e difesa dai miti di testaccio; da Ghiggia, Manfredini, Lojacono, Angelillo solisti del gioco d’attacco anni ’60; da Liedholm, demiurgo del possesso e delle trame articolate così come autore dell’estetica della tecnica fatta di mescolanze a lui care: svedesi, danubiane, brasiliane.

    Oggi un altro estetico seppur meno poetico nei tratti rispetto ai padri fondatori, ha con la nuova costruzione della squadra introdotto nel palio l’idea della praticità: meno estetica, meno gioco offensivo per il solo gusto di esserlo e più essenzialità, più equilibrio dai caratteri orientali. 

    Sì perché l’idea di Spalletti viene da lontano, da San Pietroburgo dove ha imparato il concetto di equilibrio, non come lo intendiamo noi, non come stabilità, ma come la capacità di ballare e flettere a seconda delle necessità tra attenzione e spregiudicatezza, tra estetica e praticità.

    Lì a San Pietroburgo nella città che gli zar Romanov amavano per le sue mescolanze culturali e per la possibilità di flettere su più filosofie, l’attuale allenatore della Roma è maturato come conducator, non più manicheo ma flessibile. E’ un atto di maturità suo e della squadra corretto con buona pace di quelli che nell’enclave del romanismo storcono il naso di fronte a rappresentazioni di cinismo e praticità, recitate contro Milan, Genoa e soprattutto Udinese, nel teatro di un campionato molto juventino della Roma e, per questo, troppo vicino alla nemesi dell’estetica: il vincere a tutti i costi.

    Quella intrapresa da Spalletti è la strada giusta, quella strada che serve a far maturare definitivamente e incontrovertibilmente una squadra da sempre solo estetica, solo legata a uno stile e per questo incompleta. Dal primo giorno del suo ritorno ha allenato i giocatori sul piano mentale per infondergli la consapevolezza, per volgere gli ostacoli in punti di forza a favore, blocchi che non sempre il romanismo ha capito come affrontare, traducendoli in scuse e rimandi che non appartengono alle grandi squadre.

    Nel trasformare la squadra e nel renderla inattaccabile e solida ha lavorato anche sull’assetto con la grande regola dello studio delle caratteristiche dei giocatori, vero pilastro dei grandi allenatori. Su queste qualità tecniche ha rivoltato la squadra leggera e larga di prima, con la difesa a tre e un sistema misto che cambia durante le partite grazie a una serie d’interscambi interni nelle due fasi del gioco, facendola diventare imperiosa. Ha introdotto il concetto, sconosciuto, della difesa come emblema. Ha mantenuto i gol (la Roma con il Napoli ha segnato più di tutti) ma gli ha dato un senso, un fine.

    Il suo tentativo storico di cambiare il carattere della Roma è ora a un bivio. Infatti, non basta la ricerca della praticità, del cinismo, della solidità. Ci vuole la vittoria che conclami il tutto. Tutto il suo lavoro di costruzione di una squadra finalmente flessibile, compiuta nell’equilibrio orientale e consapevole, si affermerà solo vincendo. Perché la vittoria farebbe uscire la Roma dalla prigionia dell’estetica fine a se stessa e abbracciare l’equilibrio di poter essere, quando occorre, belli e pratici.

    La coppa Italia ha ribadito il nuovo tratto della Roma, e anche Falcao coronato a suo tempo ottavo re, ha dalla città dell’estetica e del sublime, Firenze, detto che questo è il segno di una Roma finalmente matura e consapevole. Quasi un flashback storico a pochi ore da Roma-Cagliari di quello che fu per i romanisti, il divino. Nel febbraio 1983 proprio Falcao con un volo d’angelo segnò con un gesto estetico l’1-0 e garantì alla squadra armoniosa di Liedholm la pratica della vittoria. Quella stessa pratica che serve adesso per uscire dall’estetica del vorrei ma non posso, e abbracciare l’estetica della praticità, quella delle grandi squadre.

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