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    Sor Carletto Mazzone, il 'Provinciale di successo' che univa le tifoserie e i campioni

    Sor Carletto Mazzone, il 'Provinciale di successo' che univa le tifoserie e i campioni

    • Furio Zara
      Furio Zara
    Carlo Mazzone il patriarca benevolo del calcio italiano, il mister amato da tutti, trasversalmente, quelli che l’hanno visto allenare, sbraitare, urlare, spiegare la sua filosofia - “Nun giochi a calcio se c’hai paura” - persino correre in maniera scomposta verso una curva avversaria urlando “Mortacci vostra” - e quelli che di lui hanno solo sentito parlare, o ne conservano un ricordo sgranato, forse un post sui social, ultima avventura tentata qualche anno fa insieme al nipote. Carlo Mazzone, Sor Carletto da sempre, Er Magara, romano di trastevere, romanista fin dalla nascita, però capace di riunire due tifoserie che si guardano con il sangue negli occhi, quelle di Ascoli e Sambenedettese: ad Ascoli aveva fatto la storia, ci aveva giocato - era un centromediano di stazza forte e piede robusto - e poi l'aveva allenato, e a San Benedetto ci viveva, circondato dall’affetto di chi - ancora qualche tempo fa - lo vedeva passeggiare sul lungomare. Carlo Mazzone e le sue 792 panchine ufficiali in Serie A - record di sempre - fanno 795 se contempliamo anche i 3 spareggi.

    Lui che aveva smesso per infortunio di giocare che non aveva trent’anni, stava ad Ascoli e cominciò ad allenare le giovanili, poi la prima squadra, nel 1969. Da quel momento, fino al 2006, presenza implacabile e irrinunciabile nell’album Panini, trentasette anni di carriera, dodici squadre allenate con tre ritorni, ad Ascoli e a Cagliari e quindi a Bologna, guidando il club rossoblù in tre periodi diversi. La Roma nel cuore - “E’ il giorno più felice della mia vita, ma a cinquantasei anni credo di essermelo meritato” disse quando lo nominarono allenatore nel 1993 (rimase tre anni), il 3° posto con la Fiorentina di Antognoni nel 1977, il biennio a Catanzaro, l’Ascoli come trampolino di lancio (gli anni a fare coppia con il presidente dai calzini rossi, Costantino Rozzi, le due promozioni prima dalla C alla B e poi dalla B alla A, le salvezze conquistate con i denti), il quadriennio di Lecce con la promozione in A e le due salvezze, prima e dopo una tappa a Bologna e una a Pescara, Cagliari e Roma, di nuovo Cagliari, Napoli - l’unica volta in cui si dimise perché non si sentiva rispettato - lo scudetto tolto alla Juve sotto il diluvio di Perugia, gli anni spensierati di Brescia, la retrocessione in B - l’unica di un campionato condotto dall’inizio alla fine - a Bologna, poco prima del passo d’addio, a Livorno.

    Daje Carlè, come da striscione epocale in curva all’Olimpico. Il Mister Salvezza, il Provinciale di successo, mai però che una grande - una grande davvero, la Roma di inizio anni 90 non lo era - lo abbia preso in considerazione. Ne sapeva di calcio, ma spesso l’abito inganna e il monaco ne esce malconcio. A fregarlo i modi ruspanti, quel “dico in faccia tutto a tutti”, un carattere che con i giocatori era tenerissimo ma con i presidenti anche no. Quanti campioni ha amato Mazzone, quanti l’hanno amato. Il giovane Totti che a Roma chiamavano ancora “Pupone” e lui svezzò, il vecchio Baggio, con cui stabili un rapporto speciale (“Gestire Roberto Baggio è stato una passeggiata. Era un amico che mi faceva vincere la domenica”), quel Pep Guardiola - anzi Peppe - che si ricordò di lui e nella sua prima finale di Champions con il Barcellona gli mandò due biglietti omaggio e gli chiese di esserci, in tribuna all’Olimpico, quel Pirlo che Mazzone - ne capiva di calcio, eccome - trasformò da buon trequartista a straordinario regista davanti alla difesa. Mazzone che veniva imitato da Teo Teocoli, che ogni intervista era uno spasso, che ci infilava uno slang in romanesco ogni due frasi e una volta se la prese con “quel tiro de Screcca che se finiva dentro vincevamo”. Screcca - per la cronaca - era l’olandese Michael Kreek. Mazzone uomo di campo, una vita in campo, il campo come una chiesa, bisogna avere fede e credere nelle infinite possibilità del destino. Mazzone a cui è mancata solo una cosa in carriera, una cosa a cui avrebbe tenuto tantissimo: la panchina della Nazionale. Chissà quanto ci saremmo divertiti, chissà che bellezza sarebbe stata.

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