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Sor Carletto Mazzone, il 'Provinciale di successo' che univa le tifoserie e i campioni
Lui che aveva smesso per infortunio di giocare che non aveva trent’anni, stava ad Ascoli e cominciò ad allenare le giovanili, poi la prima squadra, nel 1969. Da quel momento, fino al 2006, presenza implacabile e irrinunciabile nell’album Panini, trentasette anni di carriera, dodici squadre allenate con tre ritorni, ad Ascoli e a Cagliari e quindi a Bologna, guidando il club rossoblù in tre periodi diversi. La Roma nel cuore - “E’ il giorno più felice della mia vita, ma a cinquantasei anni credo di essermelo meritato” disse quando lo nominarono allenatore nel 1993 (rimase tre anni), il 3° posto con la Fiorentina di Antognoni nel 1977, il biennio a Catanzaro, l’Ascoli come trampolino di lancio (gli anni a fare coppia con il presidente dai calzini rossi, Costantino Rozzi, le due promozioni prima dalla C alla B e poi dalla B alla A, le salvezze conquistate con i denti), il quadriennio di Lecce con la promozione in A e le due salvezze, prima e dopo una tappa a Bologna e una a Pescara, Cagliari e Roma, di nuovo Cagliari, Napoli - l’unica volta in cui si dimise perché non si sentiva rispettato - lo scudetto tolto alla Juve sotto il diluvio di Perugia, gli anni spensierati di Brescia, la retrocessione in B - l’unica di un campionato condotto dall’inizio alla fine - a Bologna, poco prima del passo d’addio, a Livorno.
Daje Carlè, come da striscione epocale in curva all’Olimpico. Il Mister Salvezza, il Provinciale di successo, mai però che una grande - una grande davvero, la Roma di inizio anni 90 non lo era - lo abbia preso in considerazione. Ne sapeva di calcio, ma spesso l’abito inganna e il monaco ne esce malconcio. A fregarlo i modi ruspanti, quel “dico in faccia tutto a tutti”, un carattere che con i giocatori era tenerissimo ma con i presidenti anche no. Quanti campioni ha amato Mazzone, quanti l’hanno amato. Il giovane Totti che a Roma chiamavano ancora “Pupone” e lui svezzò, il vecchio Baggio, con cui stabili un rapporto speciale (“Gestire Roberto Baggio è stato una passeggiata. Era un amico che mi faceva vincere la domenica”), quel Pep Guardiola - anzi Peppe - che si ricordò di lui e nella sua prima finale di Champions con il Barcellona gli mandò due biglietti omaggio e gli chiese di esserci, in tribuna all’Olimpico, quel Pirlo che Mazzone - ne capiva di calcio, eccome - trasformò da buon trequartista a straordinario regista davanti alla difesa. Mazzone che veniva imitato da Teo Teocoli, che ogni intervista era uno spasso, che ci infilava uno slang in romanesco ogni due frasi e una volta se la prese con “quel tiro de Screcca che se finiva dentro vincevamo”. Screcca - per la cronaca - era l’olandese Michael Kreek. Mazzone uomo di campo, una vita in campo, il campo come una chiesa, bisogna avere fede e credere nelle infinite possibilità del destino. Mazzone a cui è mancata solo una cosa in carriera, una cosa a cui avrebbe tenuto tantissimo: la panchina della Nazionale. Chissà quanto ci saremmo divertiti, chissà che bellezza sarebbe stata.