Se un interista visita il J Museum
Interisti, milanisti, torinisti al “J-Museum”, la casa dei ricordi di ogni juventino. Avete capito bene. Sono tante ormai le testimonianze di persone di fede calcistica diversa (e opposta) a quella juventina che hanno visitato nel tempo la mostra permanente di tutti i cimeli della storia bianconera. E si sono emozionati. Difficile da credere per molti, abituati alla più bieca e becera rivalità.
Il dato è invece importante, fondamentale diremmo, soprattutto per chi intende il calcio ancora in chiave romantica e quindi sentimentale, scevra dai falsi ed effimeri stereotipi imposti dal moderno sport business, che ci indica il modo più “sano” e “conveniente” di vivere il rapporto con la passione più grande, la più amata. Come se qualcuno ci venisse ad insegnare il modo più giusto di amare una persona, che parole usare, che gesti fare, quando e come emozionarsi. Nel “J-Museum” (così come in altre mostre promosse da alcune società), varcando l’ingresso puoi ritrovare nelle maglie dei tuoi idoli d’infanzia la tua storia personale, nelle varie sale i racconti di un nonno, di un padre o di un fratello maggiore. Coppe, foto, ritagli di giornale e quant’altro, c’è la tua storia, e chi se ne importa se gran parte non l’hai vissuta in prima persona, ne fai parte quanto chi l’ha vissuta prima di te e ne farà parte il giovane appassionato che ne visiterà un’altra di mostra, magari tra vent’anni. Un viaggio nel cuore di ognuno, questo è la storia di un club, di ogni club. Ed è in fondo di tutti, degli juventini come dei torinisti, degli interisti come dei milanisti e via citando. In fondo, se ci pensate bene, anche nelle rivalità più profonde che lo sport ci ha mostrato, si trova sempre un affetto “nascosto”, d’altronde per “odiare” il nemico devi anche conoscerlo, avvicinarlo, contrastarlo ed allontanarlo, ma per fare tutto ciò devi creare un legame, che anche se non ammetterai mai legherà indissolubilmente la tua vita sportiva ed emozionale alla sua. Un caso su tutti: Coppi e Bartali, simboli di un’Italia che ricostruiva se stessa dalle macerie di una guerra devastante. Rivali per sempre, schivi l’un l’altro, avevano poco in comune. Eppure l’immagine che li ritrae sui pedali durante il Tour de France del 1962 è probabilmente la più famosa dello sport italiano: loro che si passano la famosa borraccia sul passo del Galibier, in una delle salite più dure del giro francese. L’immagine di un rispetto di fondo e, perché no, di un affetto reciproco celato e “creato” proprio dalla forte rivalità. E’ indubbio che un tifoso dell’Inter o del Milan proverà sempre un numero minore di emozioni al “J-Museum” rispetto a un tifoso bianconero. Sarebbe sciocco negare tutto questo, come sarebbe altrettanto superficiale e permetteteci ottuso considerare una mostra come un qualcosa di “limitato” nello spazio, seppur coinvolgente, di una sola tifoseria. In fondo, tentare di condividere le storie e le emozioni degli altri appassionati dovrebbe essere visto come la ricerca di un arricchimento dell’anima di ogni sportivo, a prescindere dalle bandiere e dall’appartenenza, ed aiuterebbe probabilmente ad allontanarci sia dalle più stupide divisioni del tifo, sia dagli insensibili insegnamenti dei gestori di tutto il circo pallonaro. Iniziare a comprendere tutto questo rappresenterebbe forse un piccolo passo in avanti per far tornare quello che il calcio è stato, ormai diversi decenni fa, per questo paese: aggregazione, condivisione e, in qualche squadra e per alcuni protagonisti, anche insegnamento.
Ma forse corriamo troppo avanti. O troppo indietro.
Raniero Mercuri