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Romamania: l'amore di De Rossi come un trofeo, la panchina giallorossa lo aspetta
Quando mi è capitato di occuparmi di lui, in occasioni non sempre felicissime, ho sempre avuto la sensazione di occuparmi di un ragazzo fragile. L'ho descritto, più volte, come un fanciullo sensibile e tormentato, prigioniero nel corpo di un guerriero vichingo. Questo contrasto tra il ragazzo introspettivo diventato uomo in fretta e il giocatore con la vena perennemente gonfia, bandiera di una squadra molto più di quanto abbia mostrato in pubblico, mi ha affascinato e messo in difficoltà quando è capitato di doverlo criticare per amor di professione. Mai ho fatto sconti a qualcuno. A lui sì, lo ammetto. Ho sempre cercato qualche via per rendere la 'pena' (e la penna) più mite. Perché mi piaceva molto quel che vedevo fuori dal campo. La sua famiglia. Questo suo essere padre, marito e simbolo in modo del tutto naturale. Normale. Ci fosse un dio del giornalismo, sì, confesserei di aver peccato di indulgenza verso #DDR. Ma per suoi meriti e non per mia debolezza, sia chiaro. Perché se alcuni amici professionalmente mi chiamano il 'Grinch' uno motivo ci sarà.
Ora, al solo immaginare che De Rossi un giorno possa allenare la Roma, mi viene voglia già ora di raccontarlo, quel giorno. E non è la solita roba ritrita che peraltro non ho mai tollerato del 'romano e romanista', tra l'altro considerandola un limite per i giocatori e per la squadra. Ma semplicemente perché avere uno come lui in panchina e nello spogliatoio sì che sarebbe un valore aggiunto. Non ho dubbi sulle qualità di #DDR anche perché uno che, come dice lui, ha avuto: «l'ambizione di vincere dove non si vince mai», mostrando questo sentimento come fosse un trofeo, beh, ha già vinto. Almeno per me.