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  • Pronto, parlo con mister Maldini?

    Pronto, parlo con mister Maldini?

    • Marco Bernardini
    Mi manca tanto una telefonata. Un paio di volte ogni mese. Rigorosamente al venerdì. Un giorno scelto non a caso perché, ormai da anni, è l’unico della settimana in cui il calcio si trova in fase di stand by tra campionati e coppe assortite. Non prima delle sedici a trenta. Chi deve rispondere alla chiamata fino a quell’ora riposa, dopo il pranzo quotidiano al tavolo riservato dell’Assassino nel cuore di Milano. Il rito va avanti con successo da anni e prevede una sorta di sketch iniziale. Dico, tentando invano di camuffare la voce: “Parlo con il mister Cesare Maldini?”. Puntuale, la risposta è sempre la stessa: ”Valà Marco, ti xe sempre el solito mona”. Tutto bene. Si può cominciare.

    Cesare Maldini, il mister, è diventato un “ospite” fisso di Tuttosport. I suoi interventi, sempre molto ragionati e governati dal buon senso, piacciono ai lettori del quotidiano di una città, Torino, dove peraltro lui ebbe modo di chiudere la sua carriera di campione con addosso la maglia granata. Eppoi suo figlio Paolo, da ragazzino, era tifosissimo della Juve di Bettega e se poi è andato a giocare nel Milan fa niente. Il legame c’è. E’ così che, da allenatore, Cesare diventò anche opinionista di ottimo livello. Un ruolo che gli piaceva e che ricopriva con estremo scrupolo professionale. Senza far la predica a nessuno, soprattutto, differentemente da altri suoi colleghi imprestati alla comunicazione scritta o televisiva ed eccessivamente saccenti. Sono due mesi e undici giorni che Maldini non può più rispondere al telefono e né parlare di quel pallone che è stato il filo conduttore della sua vita. Almeno, non lo può fare nel modo che intendiamo noi. Esistono, però, altri strumenti per tentare una connessione. Uno su tutti, quello della memoria.

    Erano un pensiero e un desiderio prepotenti quelli che mi hanno spinto a pensare a Cesare ieri sera, durante e alla fine della performance azzurra che quasi nessuno si aspettava. Il fatto che le immagini e i suoni arrivassero da Lione rendevano ancora più urgente il bisogno di un “rapporto” con il vecchio cittì triestino. Lui che ebbe modo di poter guidare una nazionale azzurra tutta sua, dal 1996 al 1998, con Marco Tardelli a sbrigare quel compito di “vice” che a Cesare era toccato il Spagna al fianco di Bearzot. Una carriera breve e sbrigata principalmente in Francia. Prima per giocare il “Tournoi”, nel ’97, fortemente voluto da Platini come prove generali per il Mondiale che si sarebbe tenuto l’anno successivo nella nazione transalpina. Era l’Italia di Pagliuca, Cannavaro, Vieri, Dino Baggio e Del Piero. Soprattutto era la squadra che con lui, lungo un percorso durato dieci anni a far da talent scout per i ragazzi della Under, era cresciuta e si era cementata intorno alla sua figura di “fratello mister”.

    A livello di risultati quel doppio turno alla francese non andò benissimo. Al “Tournoi”, vinto dall’Inghilterra, rimediammo due punti frutto di altrettanti pareggi. Un bottino finale, comunque, identico a quello dei padroni di casa  poi destinati a vincere, l’anno dopo, il loro Mondiale e sempre a nostre spese grazie ai calci di rigore. Ma resterà comunque mitica la partita che pareggiammo, tre a tre, contro il Brasile e proprio nella Lione dove l’altra sera i ragazzi di Conte hanno piallato il Belgio. 

    Lione è il capoluogo dell’Alvernia-Rodano-Alpi, ma soprattutto è conosciuta come città magica per il triangolo esoterico che forma insieme con Torino e con  Praga. E un poco magica fu quella sera in un ristorante del centro dove Cesare Maldini arrivò, lasciando il ritiro azzurro, per cenare insieme con me e Beppe Smorto il quale, allora, era il vice di Minà a Tuttosport. Una cena per me tragica perché è drammatico dover dividere ottimo pesce e lumache alla bourguignonne con due commensali astemi e per i quali il massimo della trasgressione è bere un bicchiere di gassatissima Perrier. Il “beaujolais” l'ho gustato da solo. Una cena professionalmente formidabile perché, per discorsi e analisi sportive, condotta sul filo di una modestia e di un’informalità  altamente competente. Cesare naturalmente temeva il confronto del giorno di con i Brasile di un Ronaldo al top della forma, ma non aveva paura: “Perché so di poter contare si di un gruppo di ragazzi disposti a lasciare l’anima sul campo pur di far vedere al mondi di che pasta sono fatti. Tutti insieme. Uno per tutti e tutti per l’Italia”. Era la lezione di Enzo Bearzot tramandata al suo più giovane erede eppoi sparsa nel vento pronta a lasciarsi raccogliere da chi ci crede. Conte ci crese, oltre alla formule aritmetiche e agli schemi. Si chiama calcio-cuore.

    Sono certo che, se ne hanno avuto voglia e se hanno trovato il tempo per farlo, Enzo e Cesare hanno guardato insieme Belgio-Italia tirando alla fine sagge conclusioni. Ne parlerebbero volentieri. Ecco perché mi manca tanto una telefonata. Vabbè, ci provo. Magari qualcuno risponde.



      

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