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  • Pippo Russo: Londra e Istanbul, si fa presto a dire Europa

    Pippo Russo: Londra e Istanbul, si fa presto a dire Europa

    L’inno nazionale della squadra avversaria cantato dal pubblico ospitante. Sono cose mai viste quelle che accadono nei giorni in cui prendiamo atto definitivamente di come il calcio possa prestarsi, suo malgrado, a essere palcoscenico di atti sanguinari. L’offensiva del terrorismo ci ha già cambiato, e ciò che abbiamo visto succedere nel mondo del calcio durante gli ultimi giorni ce ne dà conferma. Gli stadi sono obiettivi sensibili, potenziali oggetti di attacchi dagli effetti devastanti. E di fronte all’ipotesi del pericolo la sospensione dell’evento è la sola e ragionevole cosa da fare, anche a costo di disseminare i calendari di buchi e appuntamenti mancati. E tuttavia, nel momento in cui prende definitiva coscienza del pericolo, il calcio compie uno scatto di reni mostrando una sorprendente capacità d’auto-rigenerazione. Riesce persino a farlo su un fronte che fin qui era stato fra i più critici: quello che riguarda la declinazione delle identità nazionali, e la loro sublimazione dentro il rettangolo di gioco. Uno schema che fin qui aveva diviso, ma che adesso e in condizioni drammaticamente mutate compie il miracolo di unire.

    Di questo, nella serata di ieri, abbiamo avuto manifestazioni controverse. A Wembley, in occasione dell’amichevole tra Inghilterra e Francia, si è avuta una rappresentazione di fratellanza che mai avremmo immaginato fino a qualche settimana fa. Di tutt’altro segno, purtroppo, ciò che è avvenuto a Istanbul, dove il minuto di silenzio in memoria delle vittime degli attentati terroristici a Parigi è stato profanato dai fischi e da cori "Allah u akbar". È in momenti come questo che l’Europa scopre di essere troppo grande e complessa, e d’averla fatta troppo facile coi suoi tentativi di omologare le differenze locali.

    Da questo punto di vista lo sport, e il calcio in particolare, continuano a essere le lenti d’ingrandimento più efficaci sul mutamento in corso. Il calcio non è mai stato soltanto uno sport, men che meno lo è nell’epoca della comunicazione globale istantanea e interconnessa. Ma questa sessione novembrina dedicata alle gare delle rappresentative nazionali ci ha detto anche altre cose. Una di queste riguarda la particolare declinazione delle identità nazionali che, storicamente, è stata fatta attraverso lo sport e il calcio in particolare. Un tema complesso e anche particolarmente delicato da trattare, viste le pericolose implicazioni che comporta. E infatti a partire da un certo momento avevamo pure smesso di trattarlo, soprattutto nel calcio.

    Per almeno due motivi. Innanzitutto, perché nello sport più che altrove abbiamo misurato l’impatto dei processi di globalizzazione, con la sempre più accentuata circolazione internazionale degli atleti e l’allegro ricorso alle naturalizzazioni. Elementi che hanno dato l’impressione di una spinta verso la post-nazionalizzazione dello sport. In secondo luogo perché a partire dagli anni Novanta, soprattutto nel calcio europeo occidentale (quello che detta la linea sul piano politico-economico), l’equilibrio di forze fra rappresentative nazionali e club si è pesantemente sbilanciato a favore dei secondi. L’attività delle nazionali viene ormai tollerata dai club come un fastidio di cui è impossibile privarsi, ma che certo va circoscritto. E i tifosi stessi s’infervorano per le rappresentative ormai soltanto in occasione delle fasi finali delle grandi manifestazioni, mostrando per il resto un atteggiamento tiepido e privilegiando le divisioni di fede per club all’unità patriottica. In quelle occasioni si usa dire che il calcio è l’ultimo spazio di persistenza delle identità nazionali, ma è solo una parte della verità. Perché sarebbe più corretto dire che sono le fasi finali di Mondiali e Europei di calcio a essere quello spazio di persistenza. Il resto delle attività delle nazionali non accende particolari sussulti. Tanto che, nel periodo più recente, si era fatta largo l’impressione che le partite delle rappresentative nazionali fossero diventate un pezzo di folklore nell’epoca della globalizzazione. Qualcosa di equiparabile a un palio o a una giostra medievale, comunque abbastanza sconnessa rispetta alla natura del calcio contemporaneo.

    Invece i fatti degli ultimi giorni ci hanno segnalato che nel calcio le identità nazionali significano ancora qualcosa. Non più quello che sono state durante il XX secolo, ma certamente qualcosa che nel XXI possa avere un senso. Raccontano la storia di popoli che nonostante tutto non hanno dimenticato di essere tali, e che se hanno messo da parte la guerra reale per simularla attraverso il gioco del pallone l’hanno fatto come alto esempio di civilizzazione. Ciò non sempre e non ovunque ha funzionato allo stesso modo, e le diverse scene viste ieri sera a Londra e a Istanbul ne sono conferma. Ma resta il senso della condivisione che fa sfondo a ogni gioco. Una circostanza la cui premessa è il riconoscimento dell’altro. In assenza di quello, nessun gioco inizia. Ieri sera il pubblico di Wembley che cantava la Marsigliese ci ha ricordato questo. Che il calcio, come il resto dello sport nel corso XX secolo, ha avuto una missione di pacificazione. E che se qualcuno ne ha fatto un uso spregiudicato, e al limite sanguinario, l’ha fatto malgrado il calcio. Quella missione di pacificazione può essere condotta adesso più che mai. Anche per questo i signori del terrore prendono di mira gli stadi.

    @pippoevai

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