Non comandare, ma servire: addio a Nizzola, che ha governato la transizione del calcio senza esserne travolto
Personaggio d’altri tempi, i suoi, che ovviamente amava: mi inchiodò una notte a parlare fino all’alba (in realtà parlava lui, io ascoltavo) nel suo bar preferito che, il venerdì e il sabato, restava aperto 24 ore su 24. Luciano raccontava - ma, per capirci, ci siamo dati sempre del lei - e io memorizzavo. Amico di Luciano Moggi, si diceva. Eppure fu lui a farlo deferire alla procura federale che provvide a squalificarlo. Non eravamo ai tempi di Calciopoli, scoppiata nel 2006, e allora “toccare” Moggi poteva sembrare un atto eversivo perfino per le istituzioni calcistiche. Nizzola se ne vantava e, ripeto, al tempo della nostra interminabile chiacchierata, Calciopoli era di là da venire e Moggi ancora un mammasantissima.
Prima di tutto avvocato e poi, anche amministratore delegato del Torino (1982-1987), amava il rigore e la forma. Da presidente della Lega gli piaceva che al suo ingresso nell’assemblea delle società, tutti i presidenti si alzassero in piedi e lo applaudissero. Gli sembrava un gesto di risarcimento per un incarico che, pur richiedendo il tempo pieno, non era retribuito. Quando divenne presidente federale, anche quello a titolo assolutamente gratuito, si trovò quasi subito a gestire l’improvviso addio di Arrigo Sacchi alla Nazionale, qualche mese dopo il deludente Europeo di Inghilterra. Ripiegò sull’usato sicuro impersonato da Cesare Maldini, tecnico federale e c.t. dell’Under 21. L’Italia si qualificò grazie allo spareggio con la Russia per il Mondiale di Francia ’98, dove uscimmo ai quarti dopo i calci di rigore. I risultati non erano stati negativi, ma Nizzola dovette prendere una decisione difficile: esonerare Maldini per affidarsi a Dino Zoff. Con lui arrivò a disputare l’Europeo di Belgio e Olanda. Arrivammo in finale e sicuramente l’avremmo vinta, battendo la Francia campione del mondo, se l’ultimo pallone, giocato in attacco dagli azzurri non fosse stato perso banalmente da Montella. Sulla ripartenza successiva, Wiltord pareggiò e poi, al famigerato Golden Gol, fummo giustiziati da Trezeguet. Un colpo al cuore anche per il presidente che, pochi mesi dopo, avrebbe fallito la sua rielezione.
Da allora il silenzio, rotto da sporadiche interviste, nella sua Torino, le partite di tennis allo Sporting, il suo buon ritiro, le notti a tirar tardi con gli amici. Nizzola è stato un grande dirigente perché aveva grandi valori e ad essi non ha mai rinunciato. Amava il calcio in modo disinteressato e aveva un sacro rispetto per le norme e le regole. Ha governato la transizione senza venirne travolto: dal professionismo si stava passando all’iperprofessionismo con la grande greppia dei diritti televisivi. Lui era stato per l’equa ripartizione perché, come amava dire, le grandi squadre non esisterebbero se non esistessero le medie e le piccole. La sua lucidità - purtroppo compromessa, negli ultimi anni, dalla malattia - sarebbe utile anche adesso. La sua specialità era mettersi a disposizione. Non comandare, ma servire. Come tutti gli uomini delle istituzioni devono fare.