ANSA
Ciao Direttore, maestro di parole. Ora so che è meglio stonare che cantare in coro
Aspettavo le nostre telefonate settimanali con una gioia quasi infantile, sicuro che avresti regalato - a me e ai lettori di Calciomercato.com - un punto di vista diverso, una prospettiva laterale, un modo di guardare a cui nessuno aveva pensato. Mi hai insegnato che per il rispetto che si deve al lettore si può, anzi si deve, provare a incrinare le certezze, sì, talvolta persino farlo incazzare. Non siamo qui per compiacere qualcuno o adularlo, ma per aprire una finestra da cui si vede qualcosa di nuovo. Mi dicevi che la cosa più comoda - per noi giornalisti di pallone - è cantare in coro, alzare la voce quando chi comanda la alza e ridurla a un sospiro quando conviene; e me lo dicevi per avvisarmi che la via più comoda è anche la più desolante e grigia. Se il coro cantava una canzone, tu stonavi, volutamente stonavi, facevi un passo a lato e ne cantavi un’altra, che raccontava tutta un’altra storia. A proposito: ti è sempre piaciuto cantare e una volta - tra il commento a un gol di Ibra e a un colpo di teatro di Mourinho - ci siamo detti che il mondo si divide in due categorie. Quelli che durante la giornata, così, all’improvviso, senza un motivo preciso si mettono a cantare da soli, e quelli che no, proprio non gli viene. Ne abbiamo riso. Sei stato un giornalista speciale, perché eri diverso da tutti. Avevi sempre un’illuminazione che spettinava le idee preconfezionate. Andavi controcorrente, anche solo per il gusto di farlo. E ti divertivi come un matto. Detestavi la fuffa, la cialtroneria, il luogo comune, quelli che parlano per sentito dire, quelli che se la menano con le solite due-tre frasi fatte e pensano che sia la posa con cui le dicono a dare valore, ciambellani del nulla. Ti piaceva la Storia - dell’umanità e del calcio - perché sapevi che solo lì si nasconde la scintilla di quello che verrà. Studia sempre, mi dicevi. Eri curioso di tutto.
Rileggo queste righe e le trovo povere e insufficienti a raccontare chi è stato Mario Sconcerti, ma sono le mie e più non so fare. Ora chiudo il pezzo e mi rivedo più di vent'anni anni fa, salir le scale al tuo fianco, mentre si andava insieme a firmare il mio primo contratto da professionista nell’ufficio dell’editore. Fino ad un mese prima facevo tutt’altro, più che altro sognavo e correvo dietro alle nuvole. Hai visto in me cose che non sapevo di avere, consegnandomi un mestiere hai indovinato una traccia di vita che oggi custodisco come il più prezioso dei regali. Ad un certo punto, quel giorno, si stava davanti alla porta, ti sei fermato, mi hai messo una mano sulla spalla e mi hai sorriso: stava cambiando la mia vita, era il tuo modo per dirmi buon viaggio. Eri un uomo buono e generoso. Ci siamo voluti bene, ce lo siamo detti un paio di volte, quelle che contano. E se ogni tanto mi verrà da cantare da solo, e stai sicuro che succederà, allora ti penserò.