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Milan, Montella: 'Voglio restare a lungo. Donnarumma? Dipende da lui...'
Con padrone incontentabile.
«Un presidente ha diritto di esternare i suoi desideri. La sua è una storia unica e si avverte la responsabilità di vincere attraverso il bel gioco».
Lei è il mister meno “consigliato”, ultimi mesi a parte.
«Si è esagerato, mi sono sempre sentito libero. Il presidente sa dialogare, trasmette il suo pensiero e la sua mentalità. Dà stimoli anche quando la macchina sembra al massimo».
Critica non presidenziale: il Milan gioca in contropiede.
«Luogo comune: giochiamo in tutti i modi. Abbiamo subito il maggior numero di gol a difesa schierata e segniamo spesso rubando palla. La squadra capisce i frangenti».
L’estetica?
«Bisogna soppesare la forza dell’avversario e lo stato dei giocatori. Con la Fiorentina ho messo un difensore in più, per chiudere la profondità: non hanno più tirato in porta».
Quando allenava la Fiorentina, il Milan la cercò?
«L’unico “minicasting” risale all‘anno scorso, con autorizzazione scritta della Samp».
Fu scelto da Galliani o da Gancikoff, allora “cinese”?
«C’erano entrambi, penso supervisionati da Berlusconi».
Fassone, ad in pectore, intende affidarle il nuovo ciclo.
«Il mestiere è labile, con oscillazioni mediatiche. Devo lavorare e ottenere risultati. Sono felice di allenare il Milan e vorrei rimanere qui a lungo».
Per giocare la Champions? «La squadra è già competitiva. Ha un’anima e una base giovane, che può crescere. Anche con i giusti correttivi, non numerosissimi».
Bastano 130 milioni?
«Si dice che sia più facile sbagliare, con i soldi. Ma non bisogna sbagliare, a prescindere dal budget».
Ha schierato anche 9 italiani su 11: austerity o scelta?
«A me piace allenare i giocatori forti. Anche gli stranieri ci danno una bella mano. Certo, la storia dice che un blocco italiano può dare qualcosa in più».
Il fenomeno è Donnarumma, 18 anni domani, come lei napoletano e figlio di falegname. «Papà lavora ancora, a 84 anni. Donnarumma è un’intuizione di Mihajlovic, io ho solo continuato. Di lui e Locatelli mi sorprende la maturità, in una squadra in costruzione ».
Vietato venderlo.
«Uno così lo vuoi tenere. Ha forza contrattuale, anche per l’età. Dipende da lui».
Tutto comimciò dai Giovanissimi della Roma: 3 di quella squadra giocano in A e 3 in B.
«Ogni volta mi regalano la maglia. A quell’età l’allenatore influisce, ma fu merito di Bruno Conti: in Europa è la Roma a lanciare più talenti».
Un attaccante da 0,49 gol a partita ha l’etichetta di egoista, più che di futuro psicologo.
«Considerati i minuti giocati, forse sono al primo posto. Ma non ero egoista: tiravo se era la soluzione migliore. Per allenare, ho studiato tanto: ad alti livelli la differenza si fa entrando nella testa dei giocatori».
Si è rimesso sui libri?
«Un corso di management alla Luiss e alcuni esami all’Isef, purtroppo incompatibile col lavoro. Ma mi aggiorno di continuo. Se ti fermi sulle tue certezze, smetti di crescere».
Aneddoto: le pettorine col gps per le giovanili della Roma. «Dissi che, se non me ne compravano 10, l’avrei fatto io. Grazie alla tecnologia controllo che cosa succede in partita, anche se poi non gioca chi corre di più».
Lo staff?
«Completa le competenze: ci sono cose che non so fare».
Il video?
«La mente recepisce meglio ciò che vede e che la emoziona. Quando si rivedono, i giocatori sono più attenti».
Altro aneddoto: “L’alchimista” di Coelho regalo di Natale ai Giovanissimi.
«Nel 2009: 36 copie, una ciascuno, con frasi personalizzate. Il mio primo libro da adulto, per insegnare a credere nei sogni».
La famosa dieta?
«Non vegana, precisiamo: oggi nel menu di Milanello c’è la paillard di vitello. Se si può migliorare bisogna farlo. Credo nel riposo e nell’alimentazione. Un calciatore si può allenare due ore e poi pensare al telefonino. Io no: mi documento, per dare ai ragazzi tutti gli strumenti possibili. Ma i cambiamenti spaventano».
Tipo?
«Eliminare la credenza sull’aumento della massa muscolare. O a Catania convincere i 30enni che non servivano i 5mila metri».
La tesi a Coverciano sfatò la preparazione precampionato. «Il lavoro con la palla è allenante. Quanto al famoso serbatoio, se devi rifare il pieno, vuol dire che hai perso benzina».
Da chi ha imparato di più?
«Da Spalletti il campo. Da Ancelotti il modo di allenare».
Quanto conta la tattica?
«Non credo in moduli e modelli vincenti, ma in una base per i concetti, da adeguare ai giocatori».
Lei scagliò una bottiglietta contro Capello: si è immedesimato in Allegri o in Bonucci?
«Non conosco i fatti. In quel vecchio episodio avevo le mie ragioni, ma sbagliai nella reazione. Ricordo ancora la ramanzina di mio padre».
Le esclusioni amareggiano anche Bacca.
«Non mi ha mai mancato di rispetto. Io soffrii alla Roma: ero nervosissimo. Ma il rimpianto resta il Mondiale 2002: stavo talmente bene che mi sentivo di battere la concorrenza pazzesca».
Bacca rimane?
«Con la società siamo d’accordo: massima fiducia in lui».
La Cina è una tentazione?
«A fine carriera un’esperienza del genere l’avrei fatta, io andai al Fulham. È un’occasione per la famiglia».
Ha immagine da introverso, a parte il gesto guascone dell’aeroplanino. «Lo inventai al Genoa. La pacatezza nesce dal percorso di calciatore, perennemente indifeso. Ma sono gioviale».
La napoletanità?
«La famiglia. E la musica di Pino Daniele».
Ha conquistato i milanisti perché non li ha illusi?
«Avverto la vicinanza, mi fermano per strada. I tifosi accettano pregi e difetti della squadra, sentono che dà tutto. E hanno visto la Supercoppa».
“Una sola cosa rende impossibile il sogno: la paura di fallire”: l’aforisma è di Coelho.
«Mi ci riconosco. Devi essere convinto. Senza mai mentire a te stesso».