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McKennie: 'Inizio duro, mi dicevano: che fai? Ridi e scherzi, ma ieri abbiamo perso. Sulla Juve e il caso USA...'
L'ARRIVO ALLO SCHALKE - "Quando avevo 15-16 anni non immaginavo che sarei arrivato dove sono adesso. Quando sono arrivato in Europa, allo Schalke, ho cominciato a pensare che avrei potuto farcela. Arrivavo dagli Stati Uniti, per me quello tedesco era un grande club. Quando raggiungo un obiettivo, ne ho subito un altro: ho voluto crescere il più velocemente possibile per vedere quale livello avrei potuto raggiungere e dove mi avrebbe portato".
JUVENTUS - Quindi, il ricordo dei primi tempi alla Juventus. "A essere onesti, ho lottato un po' cercando un equilibrio quando sono arrivato. Non dal punto di vista dell'umiltà, ma per il semplice fatto che il calcio italiano ha una cultura diversa e la Juventus non è come le altre squadre in cui ho giocato. Ha una reputazione diversa. Tutti si aspettano che vinca e se non ci riesci non lo si accetta. Io sono una persona che odia perdere, ma non riesco a pensare troppo al passato. Fa male la sera, forse un po' il giorno dopo, ma dopo la vita e il calcio vanno avanti e bisogna concentrarsi sulla prossima sfida. Quando sono arrivato mi dicevano 'Ehi, che stai facendo ragazzo? Ridi, scherzi e ascolti musica, ma ieri abbiamo perso'. Ho imparato a scegliere i momenti giusti in cui lasciar uscire la mia personalità e quando contenerla, ma rimanendo sempre me stesso"
I COMPAGNI - "Giocare con campioni come Cristiano Ronaldo, Dybala, Szczesny, Chiellini e Bonucci? Se me l'avessi detto cinque o sei anni fa non ci avrei creduto: è da pazzi. A casa mi chiedono com'è lo spogliatoio, che tipo è Dybala. Non cambierebbe nulla se io non ci fossi, ma questi sono i miei compagni, questa è la mia squadra. Se ho bisogno di loro mi basta bussare alla porta della loro camera. Quando arrivi in squadre come questa non puoi comportarti da 'tifoso' o da 'fan' perché ora questo è il tuo nuovo livello: devi dimostrare di poterci stare".
CASO NAZIONALE - Sul diverbio avuto mesi fa con il ct degli Stati Uniti, Gregg Berhalter: "Non scenderò nei dettagli, ma per me è stato un grande test mentale, una grande sfida da superare: sbagli e vieni visto automaticamente come egoista, come qualcuno che delude la squadra. La gente dimentica che siamo esseri umani: non siamo robot, anche noi facciamo errori. Tutti li fanno". E sui social: "Provo a non guardarli tanto, ma a volte è difficile evitarlo e le cose che mi hanno detto sono state dure da accettare. C'è stato anche razzismo, sono stato chiamato in mille modi, mi è stato detto che sono egoista e che mi comporto come un ragazzino. Ho lavorato tutta la vita per arrivare dove sono. Ho imparato che devo continuare a lavorare, a testa bassa, e dimostrare sul campo che si sbagliano".