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    Mancini-Italia, il c.t. avrebbe voluto dimettersi prima, ma non ne ha avuto la forza. Ora l'Arabia lo tenta

    Mancini-Italia, il c.t. avrebbe voluto dimettersi prima, ma non ne ha avuto la forza. Ora l'Arabia lo tenta

    • Renzo Parodi
    Avrebbe voluto e dovuto farlo da un pezzo, almeno a giugno dopo la Nation League perduta, un’altra delusione dopo la sconfitta mondiale contro la Macedonia del Nord, la sua personalissima Corea. Ma a Roberto Mancini spiaceva piantare in asso baracca e burattini e così ha rimandato l’addio fino ad oggi, nel pieno delle vacanze ferragostane degli italiani. Scontento e ormai distaccato da un’avventura bella e dannata, che lo ha logorato e intristito. Si consolerà con i denari del petrolio saudita, come puntualmente già si vocifera? Il principe bin Salman vorrebbe offrigli un sardanapalesco contratto triennale per inventarsi la nazionale dell’Arabia. Troppo presto per pensarci, al momento non è arrivata alcuna offerta formale. Mai dire mai, naturalmente. Nel calcio i soldi corrono più veloci del pallone. Vedremo. Adesso Mancio stacca. Tutte le cose finiscono, persino (e purtroppo) le avventure esaltanti. Sono stati cinque anni bellissimi ma ogni vicenda ha un inizio e una fine. Secondo l’uso italico impazzano le polemiche, le stilettate, i colpi bassi, i retroscena più o meno farlocchi e allora tanto vale trincerarsi dietro “i motivi personali” travasati nel messaggio ufficiale su Instagram e finirla lì.

    Macché fulmine a ciel sereno, però. L’addio di Mancini alla panchina azzurra è  un uovo a lungo covato nel nido del dubbio, infine schiuso nella certezza agostana di non aver più nulla da dire né da dare in azzurro.; Meglio tagliar corto e salutare la compagnia. Alti e bassi, gloria e disonore, felicità e delusione. I cinque anni da ct del Mancio frullano tutto il meglio e il peggio del calcio: vittoria dell’Europeo 2020 ed eliminazione alla fase finale del Mondiale in Qatar 2022.  Lo zenit e il nadir del pallone che rotola. Dopo Wembley la storia non è stata più la stessa. Idillio finito. Problemi, tanti.

    Mancio non è disponibile ai compromessi. Gravina provò ad affiancargli come consigliere anziano Marcello Lippi e Roberto batté i pugni sul tavolo: “Se arriva lui, vado via io”. Quella la vinse. Con Buffon, erede di Vialli nei panni di capodelegazione azzurro, ha dovuto abbozzare. Ma ha staccato la cambiale e l’ha messa sotto il naso di Gravina. Anche stavolta no, grazie. E addio.
    La prima crepa, prodromo del punto di rottura con la Federcalcio, l’accorante addio del gemello del cuore, Gianluca Vialli. Con lui Mancio aveva celebrato la rivincita di Wembley e il loro abbraccio, all’ombra della Coppa, era stato la scolorina della sconfitta della Sampdoria in Coppa Campioni, contro il Barcellona di Cruijff: anno domini 1992. Mancato Vialli, a gennaio di quest’anno, Mancini ha perso il consigliere, l’amico, il prezioso alter ego. Diversi e complementari in campo, fratelli di latte in panchina. Mai uno screzio, mai un diverbio. Il sole e la luna. Si illuminavano a vicenda.

    Progressivamente Mancio ha visto calare la voglia di cimentarsi, il desiderio di riscatto alla brutta caduta del pre-Mondiale. Un’ombra che lo ha perseguitato. Molte, troppe voci dissonanti attorno alle sue scelte. Celebrate con enfasi perché all’epoca (2018) il Mancio aveva avuto il coraggio di tagliare di netto tutti i ponti col passato. Aveva dato una chance ai verdi virgulti nostrani trascurati: da Zaniolo a Tonali, passando per Fattesi, Di Lorenzo, Politano, Kean, Bernardeschi, Chiesa e tanti altri. Una rottura netta col passato.

    Come Valcareggi e Bearzot (dopo Messico ‘70 e Spagna ‘82) era inciampato nel peccato di riconoscenza: non seppe o non volle rinfrescare l’organico vittorioso nell’Europeo che già dava segni di sfarinamento. Risultato: addio al Mondiale e il lavoro da rifare daccapo, rimettendo insieme i cocci di una nazionale sfibrata, senza allegria, incapace di divertirsi con pallone fra i piedi; come svuotata di energie mentali dopo il baccanale di Wembley. Il resto è storia recente. Sconfitta dalla Spagna e terzo posto in Nation League lo scorso giugno. Praticamente ieri. E la decisione di ritirarsi covata per due mesi: In silenzio.

    La botta finale? Il rimescolone deciso dal presidente Gravina (e, assicurano dalla FIGC, concordato con il ct), che ha praticamente azzerato lo staff azzurro che il Mancio si era costruito attorno, tutta gente sua, cresciuta con lui nell’incantato Shangri-La della Sampdoria di Paolo Mantovani. Di quella covata, è sopravvissuto soltanto Attilio Lombardo, promosso a tecnico dell’under 20. Altri compiti per Salsano, confermato Massimo Battara, preparatore dei portieri, via il silenzioso, preziosissimo Nuciari. La prima testa a cadere nel cesto, quella di Chicco Evani¸ suo fido secondo, sostituito da Alberto Bollini, vittorioso nell’europeo under 19. Barzagli e Gagliardi hanno preso il posto degli epurati. La nomina del Mancio a supervisore di under 21 e under 20 lo ha ingoiato come uno zuccherino andato a male, il maldestro tentativo del vertice federale di addolcirgli la pillola.

    No, decisamente era tempo di chiudere e guardare oltre. Senza rimpianti (insomma, qualcuno sì, eccome), senza rancori perché Roberto non è tipo da legarsela al dito. Come tutti i buoni - e lui è un buono - non cercherà rivincite su nessuno. Il suo metro di paragone conosce soltanto sé stesso.
     

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