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Inter, de Boer sotto pressione
(It’s the terror of knowing what this world is about)
Di Hendrik van der Decken
Nell’Ajax 2016/17 ha trovato posto Heiko Westermann, difensore tedesco di 33 anni, voluto per accrescere il tasso di esperienza della difesa in vista della qualificazione ai gruppi di Champions League. Mossa non riuscita, a quanto pare, vista la scoppola presa dal Rostov (4-1 per i russi), e conseguente eliminazione. Westermann ha trascorso la sua carriera quasi interamente in Bundesliga: Arminia Bielefeld, Schalke, Amburgo, con la parentesi della scorsa stagione in Spagna al Real Betis. Insomma, un difensore di discreto livello e con una buona esperienza. Intervistato dall’Hamburger Morgenpost a fine agosto sulle sue prime impressioni dopo i primi mesi ai Lanceri, la prima cosa che Westermann ha detto è stata: “La pressione all’Ajax è incredibile. Qui ci si misura davvero solo sui trofei, e per questo quest’anno noi dobbiamo assolutamente vincere, dopo due stagioni di fila senza titoli”.
Capisco la perplessità e i chissenefrega che volano copiosi verso lo schermo da parte dei lettori nerazzurri, ma l’incipit sul tedescone dell’Ajax mi serve per dire due parole su Frank de Boer ed il suo inizio travagliato sulla panchina della Beneamata. Per quanto il campionato olandese sia oggettivamente un torneo di livello non eccelso, la pressione che mette sull’allenatore una piazza come quella di Amsterdam adusa ai successi del presente ed orgogliosa di splendori assoluti del passato non è assolutamente inferiore a quella che noi tifosi siamo capaci di mettere – spesso a sproposito – sui condottieri che abbiamo avuto il piacere, e a volta la sciagura, di vedere alla guida dell’Inter.
Ad Amsterdam si deve vincere per forza, e per giunta giocando bene. Al contrario di molti campionati di livello superiore come la serie A delle ultime stagioni, la Bundesliga e la Ligue 1, l’Eredivisie ha la caratteristica di non avere mai o quasi mai avuto una squadra che vince il titolo a febbraio, ma male che vada è sempre un duello testa a testa, e a volta addirittura a tre. E la tensione di dover vincere sempre può giocare bruttissimi scherzi, come de Boer e l’Ajax sanno fin troppo bene dopo quel pomeriggio di maggio a Deventer, dove il titolo di campione d’Olanda già praticamente vinto è stato buttato nella spazzatura causa pareggio contro la penultima in classifica.
Tutto questo mi è venuto in mente leggendo l’ennesimo articolo in cui si è parlato della pressione sull’allenatore di Hoorn che ora è alla guida dell’Inter e che si deve misurare con ben altri obiettivi, del timore o del disagio iniziale a dover gestire uno spogliatoio fatto di giocatori formati e non in divenire, ed altre amenità del genere.
Balle.
Frank de Boer ha preso l’Ajax in corsa il 6 dicembre 2010 da allenatore dell’equivalente della nostra Primavera, subentrando a Martin Jol, uno dei santoni del calcio olandese, che stava mandando alla malora l’ennesima stagione. Gli Amsterdammers, in quel momento, non vincevano un titolo dal 2004, sei interminabili stagioni. La squadra aveva dei giovani come da tradizione, certo, ma non così tanti come ne ha avuti in seguito: aveva difensori esperti come Ooijer e Oleguer, centrocampisti di sostanza e maturità come de Zeeuw e Anita, attaccanti come Suarez e El Hamdaoui. Nessuno ha fatto sconti all’esordiente de Boer, il quale ha vinto proprio in quella stagione il trentesimo titolo per i Lanceri, vincendone poi altri tre in fila, cosa che nessun allenatore era mai riuscito a fare in Olanda, neanche Rinus Michels o van Gaal, e già questo potrebbe bastare per mettere a tacere chi lo ha definito uno “Stramaccioni fortunato”.
La storia di questo allenatore è chiara, lasciando perdere i suoi trascorsi di giocatore di altissimo livello: non è e non può essere la pressione a spaventarlo, né tanto meno a condizionarlo. E di certo non credo possa essere neanche il fatto di non avere una squadra di ragazzini, perché il suo primo Ajax non lo era, anche se Christian Eriksen aveva 18 anni e giocava titolare.
I limiti di Frank de Boer possono essere quelli di un allenatore che ha sempre “litigato” un po’ con la lettura della gara e che è molto convinto delle sue scelte, tanto da non vedere a volte che è necessario cambiare qualcosa durante la partita, accuse che gli sono state rivolte più volte dalla critica calcistica olandese; possono essere quelli di una conoscenza limitata del calcio italiano e della serie A, ammesso che sia così, e della mentalità legata al calcio italiano tout court, molto distante dalla sua cultura e dal suo atteggiamento verso le cose di campo e quelle fuori dal rettangolo verde. Tutto questo è ciò che gli si può teoricamente imputare, e vedremo se sarà vero, come sembra trasparire anche dalle primissime partite, o se sarà capace di smentire questi limiti attraverso la prova inappellabile del campo.
Ma oltre a questi limiti soggettivi, per ora tutti da verificare, esistono alcuni limiti oggettivi: sono quelli di una situazione complicata sin dal giorno del suo arrivo, causata da scelte errate della vecchia e della nuova dirigenza, coincise con un momento di transizione societaria e con una scarsa voglia di continuare ad allenare l’Inter da parte di Roberto Mancini: di questi limiti, però, de Boer non ne ha la responsabilità, checché ne scrivano alcuni (ho letto che non può lamentarsi della preparazione fatta da un altro con metodi non suoi, figurarsi).
Con molto più buon senso, ho letto un po’ dovunque che uno come de Boer deve avere del tempo per dare alla sua squadra automatismi sufficientemente affidabili da permettere l’efficacia del suo gioco. Ho letto anche che prendere una squadra a dieci giorni dall’inizio del campionato sarebbe difficile per chiunque, ed a maggior ragione per lui. Ho sentito Frank de Boer dire in conferenza stampa che i risultati del suo lavoro di dovrebbero vedere a gennaio, quando la condizione fisica e l’affiatamento della squadra relativamente alle sue idee di gioco saranno quelle necessarie per esprimerlo. Ed essendo egli uno di quegli allenatori che costruiscono nel tempo la forza della loro squadra e del loro gioco, mi sembra del tutto logico. Insomma, il sentimento generale nelle discussioni tra interisti era improntato a un sano realismo, basato su constatazione abbastanza ovvie ma con il preoccupante corollario che tutto ciò accade in un periodo dell’anno dove si giocano partite da tre punti, non delle amichevoli, ed è quindi evidente che lasciarne per strada era ed è l’eventualità più probabile.
Ma allora, perché?
Perché quegli sfoghi assurdi letti, sentiti ed osservati quasi dappertutto contro un allenatore che, per quanto detto sopra, sta facendo e sta ottenendo né più né meno ciò che tutti hanno pronosticato e che si aspettavano in 20 giorni di lavoro nelle circostanze date?
Lasciamo stare titoli di giornali e trasmissioni TV che hanno quasi sempre una predilezione (e chissà, forse una soddisfazione) nello sparare addosso al nerazzurro: ma i tifosi? Lungi da me dare patenti o lezioni, ci mancherebbe altro. Ognuno tifa come gli va, come vuole e come sente. Però poi sento e leggo della retorica del tifo diverso, del supporto speciale, e francamente m’incazzo: perché questo supporto speciale, questa differenza, nella mia ingenua visione delle cose si dovrebbe tramutare in un controllo della legittima arrabbiatura nel vedere l’Inter perdere malissimamente a Verona senza poi crocifiggere uno che ancora probabilmente sbaglia strada quando va alla Pinetina; si dovrebbe trasformare in una soddisfazione per i miglioramenti visti contro il Palermo piuttosto che sparare addosso all’allenatore che domenica, oltre a qualche suo errore – “normale” secondo la logica che ho espresso sopra – ha pagato dazio anche a un po’ di sfiga.
La mia impressione è che tutti razionalmente abbiamo annuito facendo sì con la nostra testolona quando leggevamo delle difficoltà di far partire una stagione nel modo bizzarro in cui Frank de Boer si è trovato a farlo e delle probabili delusioni inziali sul campo, ma poi – come tutti i tifosi – abbiamo incastonato nella testolona suddetta un bel retropensiero nel quale, contro ogni pronostico, l’Inter avrebbe sorprendentemente giocato bene e vinto, subito e da subito.
Purtroppo, a volte, il calcio è una cosa abbastanza semplice: le ottime squadre hanno bisogno di tempo per diventarlo, come il buon vino, o come un lavoro fatto bene, o semplicemente come tutti noi quando al lavoro ci chiedono di fare una cosa nuova, e ci incazziamo se dopo una settimana ci vengono a fare le pulci perché non la stiamo facendo come vorrebbero che la facessimo.
Ed ecco Verona, ed ecco il pareggio col Palermo, e molta pressione da parte di tutti quanti; un bookmaker oggi darebbe una quota più bassa alla stagione che finisce male rispetto a quella che finisce bene. E quindi, per una volta, mi piacerebbe che le aspettative dei tifosi si mantenessero sinceramente basse: aiuterebbe a tenere tutto l’ambiente un po’ più sereno, e magari anche ad arrabbiarci di meno almeno per un po’, cosa che male non fa.
Inutile in questi frangenti continuare a urlacchiare che “siamo l’Inter” e scandalizzarsi perché le prestazioni non sono quelle che vorremmo: che io sappia nelle ultime cinque stagioni l’ho sentito a destra e a manca mille volte che siamo l’Inter, e non ha aiutato a correre di più e meglio di tante, troppe squadre, anche e soprattutto di tasso tecnico inferiore. Inutile anche rimarcare che un allenatore dalle carattersitiche di de Boer non era l’ideale da ingaggiare in questa situazione, e probabilmente neanche in assoluto, visto che la pazienza dei tifosi è agli sgoccioli e la stragrande maggioranza non vuole sentir parlare di progetti di crescita che richiedano due o tre stagioni: ormai è qua, e se non vogliamo buttare la sesta stagione consecutiva nel cesso, sarebbe meglio fare tutti la propria parte.
Magari la sosta per la nazionale potrebbe essere usata per resettare i nostri atteggiamenti senza impazzire al terzo passaggio sbagliato da Kondogbia o all’opposizione goffa di Santon al tiro di Rispoli. A fine anno, quando tireremo le somme, avremo tutto il diritto di mandare a quel paese chiunque ci sembri meritevole del viaggio, allenatore in primis: ma farlo adesso assomiglia davvero a una raffinata forma di masochismo calcistico dalla quale mi sottraggo volentieri.
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