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  • In memoria di Mantovani, l'uomo di ferro che realizzò i sogni della Sampdoria di Mancini e Vialli

    In memoria di Mantovani, l'uomo di ferro che realizzò i sogni della Sampdoria di Mancini e Vialli

    • Renzo Parodi
    “Mi domandano perché fra tante squadre ho scelto proprio la Sampdoria. Eppure nessuno mi domanda perché, tra tante donne, ho scelto mia moglie. E qui a Genova c’erano appena due squadre…”. E ancora: “Se c‘è una cosa per la quale nella vita non mi sono mai pentito è stato aver preso la Sampdoria”. E infine: “il mio allenatore per me è il migliore del mondo perché l’ho scelto io. Nel momento in cui non mi andasse più bene lo liquiderei in cinque minuti”. Pillole di saggezza senza tempo nell’infinito abbecedario calcistico di Paolo Mantovani, il presidente che trasformò la piccola, simpatica Sampdoria in una delle società più forti e ammirate d’Europa. E tutto ciò nel giro di pochi anni, era diventato presidente e proprietario, luglio 1979, con la squadra sprofondata serie b e a rischio fallimento e gli occorsero tre anni per riportarla all’onore del mondo.

    In 8 stagioni – dal 1985 al 1993 – la Sampdoria vinse lo scudetto, spezzando l’egemonia apparentemente inscalfibile sull’asse Milano-Torino;, una coppa delle Coppe, tre volte la coppa Italia (quattro col trofeo del 1994, conquistato postumo dalla sua ultima squadra), una supercoppa di Lega, perdendo due finali europee: 1989 coppa delle coppe e 1992 coppa dei campioni, entrambe le volte contro il Barcellona. E due finali di coppa Italia. Un palmares invidiabile e tanto più formidabile perché conquistato nella “piccola”, politicamente marginale Genova, città declinante e in costante emorragia di residenti, calcisticamente contesa dal Genoa, la rivale cittadina di antico blasone.

    Se la parola miracolo ha cittadinanza, ebbene quello forgiato di Paolo Mantovani – del quale ricorre oggi, 14 ottobre 2023 il trentennale della scomparsa – fu un autentico miracolo. Irripetibile, purtroppo. Romano del quartiere Prati, chiamato a Genova a 25 anni dall’armatore Filippo Cameli per il quale aveva iniziato il tirocinio a Roma, Mantovani lavora sei giorni su sette, sta in ufficio 12 anche 15 ore al giorno. Il mondo dello shipping lo affascina, lo sente affine al suo carattere rigoroso, severo. Un romano atipico, che coniuga le virtù dei genovesi – la parola data è sacra, la stretta di mano vale la firma sul contratto - alle brillanti intuizioni di una mente sveglia e ricettiva. Il grande salto nel business vero, quello che rende ricchi, all’inizio degli anni Settanta. In piena crisi petrolifera, Mantovani piazza il colpo della vita. Invia il suo braccio destro Alfonso Mondini, sampdorianissimo fratello del genoanissimo Giampiero, cognato di Duccio Garrone, in Kuwait e strappa all’emiro un contratto a prezzi stracciati che gli garantisce costanti e corpose forniture di petrolio.

    Il mondo annaspa, strangolato dai tagli decisi dall’Opec (l’organizzazione che riunisce i paesi produttori) all’estrazione dell’oro nero: è una rappresaglia per l’appoggio dell’Occidente ad Israele nella guerra del kippur. La Pontoil, la società della quale Mantovani è diventato socio con gli amici Lorenzo Noli e Mario Contini, invece prospera e fa soldi a palate. L’antica simpatia per la Lazio ha lasciato il posto ad una bruciante passione per la piccola Sampdoria. Mantovani racconterà di essersene innamorato proprio dopo una vittoria laziale a Genova, intenerito da quei ragazzi che indossano la maglia più bella del mondo. Nel 72/73 Mantovani entra in Sampdoria come addetto stampa, ruolo che come presidente cancellerà dai quadri perché, spiega, “i giornalisti le notizi devono trovarsele da soli”. E’ una breve parentesi, la Pontoil ha bisogno di lui a tempo pieno. Trascorre le notti in ufficio, a bruciare Mercedes senza filtro (le sigarette) appeso al telefono, spostando carichi di greggio da un porto all’altro, dirottando le petroliere a seconda del mercato. E’ un giocatore nato (come la madre, Gina che gli ha trasmesso il vizio): ramino, poker, cirulla: imbattibile. Ha una memoria prodigiosa e non sbaglia una carta. Naturalmente adora la roulette e a Montecarlo le sue sortite al tavolo da gioco con gli amici sono un classico di quegli anni.

    La Sampdoria di De Franceschini, Garufi e Rebuffa rema in acque procellose, non ci sono soldi e i tre dirigenti si recano in pellegrinaggio da Mantovani. Lui li ascolta e capisce che è venuto il momento. Il 3 luglio 1979 acquista le quote del club, paga tutti i debiti pregressi e diventa unico proprietario della Sampdoria. Da lì parte una parabola che toccherà lo zenit 13 anni dopo, feroce paradosso, con la gloriosa sconfitta di Wembley contro il Barcellona di Johan Crujiff. In mezzo, tante avventure esaltanti. Prima di tutti Mantovani comprende che sono i giovani italiani il futuro del nostro calcio. Brucia due volte la Juventus di Boniperti, soffiandole prima Mancini e poi Vialli. Roberto e Luca saranno i Dioscuri che illumineranno il cammino della sua Sampdoria, condotti magistralmente da Vujadin Boskov, un santone della panchina, finissima intelligenza e grande capacità piscologica di leggere dentro i calciatori; e dal nuovo Richelieu che ha sostituto Nassi al fianco del presidente: Paolo Borea. Primo acquisto importante, Luca Pellegrini, dal Como. Subito dopo un ragazzotto dal nome impronunciabile e il viso scolpito nel marmo e due gambe come vortici. Pietro Vierchowod. La Sampdoria gioca in B e gli tocca prestarlo alla Fiorentina e poi alla Roma. Quando decide di riprenderselo Dino Viola, il presidente romanista, per poco non ci resta secco. Anche con Toninho Cerezo fra i due numeri uno sprizzano scintillle. E’ il 1986, il brasiliano si libera a parametro. Mantovani chiama Viola. “Voglio due miliardi”, si sente rispondere. “Ti do seicento milioni”, ribatte Mantovani. I due si salutano e restano in freddo per qualche tempo. E’ Viola a rifarsi vivo: ”Paolo, vanno bene 600 milioni”. “Eh no, Dino: 600 milioni andavano bene allora, adesso te ne do 550 e se la tiri ancora in lungo diventano 500”. Cerezo passa alla Sampdoria.

    Nell’84 Mantovani piomba su un talentuoso diciottenne del Vicenza, si chiama Roberto Baggio, a Borea l’ha segnalato Giancarlo salvi, un grande ex della Sampdoria di Bernardini. Servono tre miliardi e il presidente tentenna. Ha acquistato una villa in Arizona e non se la sente. Molla la presa e Baggio va a Firenze con Nassi. L’anno dopo è quasi fatta per Berti, dal Parma, ma un improvviso malore lo sorprende e gli impedisce di andare a Milano a chiudere l’affare. Berti passa all’Inter. Ha in mano Redondo e Van Basten e pure Brehme ma non chiude l’affare. Fa un pensiero pure su Maradona, e rinuncia. Troppo grande quel campione per la piccola Genova. Diego va a Napoli. L’uomo è di ferro ma anche di burro. Si intenerisce come un bambino e gli spuntano le lacrime agli occhi quando Vialli – è il 1986 – gli comunica che lui al Milan non vuole andarci. Era già tutto fatto con Galliani e le lusinghe del braccio destro di Berlusconi vanno a vuoto: “Luca, veniamo a prenderti in elicottero. Il dottore di aspetta a Milanello”. Vialli dice ancora no.

    A ridosso del Mondiale del 90 Genova è costretta a demolire l’antico glorioso Luigi Ferraris, uno stadio cresciuto a pezzi nei decenni precedenti. L’amministrazione comunale garantisce che limiterà al minimo gli inconvenienti. Balle. Il vecchio impianto viene sventrato e ridotto alla capienza di 22mila posti. “Per quelli là bastano”, decreta l’assessore allo sport, Mario Epifani, genoano sfegatato. Chiunque altro si sarebbe arreso, non Mantovani. In campionato si gioca nel cantiere aperto in riva al Bisagno ma le partite di coppa si disputano a Cremona, in casa del presidente del club grigiorosso, l’amico Domenico Luzzara, l’unico con Pellegrini e Ferlaino al quale Mantovani concede il tu. Nell’estate del 1989, Mantovani preleva dalla Cremonese un altro gioiellino, Attilio Lombardo. Popeye lo ribattezzano i tifosi per la sua rassomiglianza con Braccio di ferro. L’accordo è per miliardi e mezzo di lire, Luzzara tenta l’ultimo rilancio. “Paolo, mi servirebbe un altro mezzo miliardo per chiudere in pari il bilancio…”. Mantovani annuisce e accontenta l’amico senza discutere. Poi spiega: “Avevo voglia di andare a mangiarmi un gelato”. Il cono più caro della storia.

    L’epilogo della sua avventura è uno sgambetto del destino. La salute è malferma. Il cuore sfiancato dalle maratone notturne e dalle sigarette ha bisogno di cure. Mantovani va a Phoenix, Arizona, per l’ennesimo check up. Lo raggiunge un fax inviato dalla società. Contiene l’intervista di Vialli alla Gazzetta dello Sport. A Paolo Condò Vialli consegna uno sfogo duro e amaro, critica la società, si smarca da Boskov. “Così non vinceremo più nulla”, conclude. Al presidente sembra una dichiarazione d’addio. Mantovani resta di sasso, si sente tradito e come gli accade reagisce d’istinto. Alza il telefono e chiama Boniperti. “Vialli le interessa ancora?”. Manca un mese alla finale di Wembley e la notizia filtra sui giornali e fra i tifosi, e’ un cataclisma. Mantovani vende Viali alla Juventus. Vialli prova a spiegarsi, Mancini entra in depressione, la squadra è scossa. Anche Cerezo va in paranoia e non ride più, lui che strappava anno per anno la conferma a Mantovani raccogliendo la firma del presidente ora sul menu di nozze di Victor, ora sul un tovagliolo del ristorante da Carmine ora sul gesso che gli serrava il ginocchio. A Wembley la Sampdoria lotta, ma Vialli non è Vialli. Sbaglia almeno tre gol fatti ed esce per crampi a un quarto d’ora dal 90’, lui abituato a tirare il collo agli avversari proprio nei finali di partita. Decide la finale una punizione alla dinamite di Koeman, Pagliuca è battuto e Mancini in lacrime manda a quel paese l’arbitro tedesco Schmidhuber che ha invertito quella maledetta punizione e si becca cinque giornate di squalifica.

    E’ la fine di un ciclo. Ed è la fine della vita terrena di Paolo Mantovani. Aggredito da un male incurabile ai polmoni, il presidente si congeda lasciando in eredità uno squadrone persino più forte di quello che aveva vinto lo scudetto. Non c’è più Vialli ma ci sono tutti gli altri e in aggiunta Gullit, Platt ed Evani. La sua morte, a ottobre del ‘93, provoca un enorme emozione non soltanto a Genova. Quarantamila persone lo accompagnano nell’ultimo viaggio e non sono soltanto tifosi della Sampdoria. La squadra, affidata a Eriksson, finisce al terzo posto e vince la sua quarta Coppa Italia. Col presidente vivo, chissà… “Non ci sarà un altro Mantovani dopo di me alla Sampdoria”. Queste parole Paolo Mantovani le disse a chi scrive e furono riportate a chiusura dell’intervista che il presidente aveva concesso al Guerin Sportivo, nel novembre 1990. Non voleva eredi, Mantovani e obbligò i quattro figli a giurare che non avrebbero guidato la Sampdoria dopo di lui. Giurarono tutti, tranne Enrico che divenne presidente. Sappiano come è andata a finire.

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