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Il problema del Manchester City è la dipendenza da Guardiola
E come l'anno scorso, e come l'anno prima, il City si è perso sul più bello. E' andato in battaglia con l'armatura lucidata e le armi migliori, ma si è sgretolato di fronte alle difficoltà. Chi vuole credere alle parole dell'agente di Yaya Touré e a una maledizione lanciata da qualche sciamano africano faccia pure, il fallimento, perché di questo stiamo parlando del Manchester City, ha un nome e un cognome: Pep Guardiola. Il catalano, per chi scrive, è da anni sul podio dei migliori allenatori del mondo, per quello che ha vinto, per quello che ha dato al calcio, del quale senza alcun dubbio ha scritto la storia. Un professore che continua insegnare calcio, che ha saputo rinnovarsi, evolversi, contaminare la sua idea di tiqui-tica con il pragmatismo tedesco e l'agonismo britannico, senza perdere il controllo del pallone, senza perdere di vista l'obiettivo, vincere con un gioco propositivo. Ma che ha un grosso limite: conta più di tutto e tutti,.
Guardiola è un accentratore, tutto ruota intorno a lui, alle sue idee e al suo problem solving. E questo finisce per deresponsabilizzare chi è in campo. Quando le cose si mettono male è difficile trovare qualcuno, in campo, che possa sostituirsi a chi c'è in panchina, che abbia l'esperienza, la personalità e leadership per tirare fuori i compagni dal fango. Quando gli episodi non girano, quando la tensione sale il Manchester City va in tilt. Lo dice anche il recente passato: ieri è uscito dalla Champions League prendendo 3 gol in 6 minuti, nel 2019-20 2 in 8, nel 2018-19 2 in 3, nl 2017-18 3 in 19. Lo dicono certe valutazioni: Ruben Dias, che ha i gradi di capitano, può concedere un rigore così in un supplementare di una semifinale di Champions League? Il City non è un insieme di figurine, ha una struttura e un equilibrio per preciso. Ma vive di una dipendenza da Guardiola che in Champions League continua a essere nociva.