Calciomercato.com

  • Il giorno dell'eroe del Mundial '82, del brasiliano sovrappeso e dell'Agnelli di Foggia

    Il giorno dell'eroe del Mundial '82, del brasiliano sovrappeso e dell'Agnelli di Foggia

    • Cesare Bardaro
    Smentendo subito la nuova cadenza di pubblicazione annunciata ieri, ri-sono qui anche oggi a causa del compimento dei 60 anni di

    PABLITO ROSSI, nato, appunto il 23 settembre 1956, eroe, e capocannoniere, del Mundial 1982,, nonché Pallone d'oro, il secondo italiano dopo Gianni Rivera (a meno che non si consideri “italiano” anche Omar Sivori) nello stesso anno. Insieme a Ronaldo, nato ieri, è l'unico giocatore ad aver vinto  nel medesimo annoil mondiale, il titolo di capocannoniere di quest'ultima competizione e il Pallone d'oro. Crebbe nella Cattolica Virtus e poi nelle giovanili della Juventus,anche se, sebbene nato a Prato, notoriamente serbatoio di tifosi bianconeri,  tifava Fiorentina perché il suo idolo da ragazzino era Kurt Hamrin “sognavo di diventare come lui. Ero tifoso della Fiorentina e ricordo a memoria la squadra che andavo a vedere nel 1969 quando vinse l’ultimo scudetto: Superchi, Rogora, Mancin, Esposito, Ferrante, Brizi, Rizzo, Merlo, Maraschi, De Sisti, Amarildo o Chiarugi. Però giocavo nei ragazzi della Juve, ma siccome non giocavo mai in prima squadra chiesi a Boniperti di trovarmi un’altra sistemazione. Mi propose il Vicenza in B e fu la mia fortuna”.Era il suo idolo anche perché allora giocava all'ala. Fu proprio  l’allenatore  del Vicenza Giovan Battista Fabbri “a spostarmi nel ruolo di centravanti: diventai così capocannoniere della serie B con 21 reti e conquistammo la promozione in A. Sono però sempre stato un centravanti atipico rispetto al prototipo dell’attaccante muscolare e potente. Forse sono stato il primo centrattacco rapido e svelto, che aveva nelle intuizioni la sua dote principale, unita a una tecnica sopraffina.. Giocare sull’anticipo era una mia grande prerogativa, cercavo sempre di rubare il tempo al mio avversario, sfruttando le mie doti di opportunista: in area di rigore cercavo sempre di sfruttare ogni piccolo errore dei difensori, facendomi trovare nel posto giusto al momento giusto”
    L'anno  successivo fu subito capocannoniere, con  24 gol, anche in serie A e il suo Vicenza, denominato Real Vicenza, raggiunse uno strabiliante secondo posto. Sempre in comproprietà tra i bianconeri e i Berici, finì alle buste e il vulcanico presidente Farina, in seguito proprietario del Milan, inserì nella propria “la fantastica cifra di 2 miliardi e 625 milioni per la metà del mio cartellino e mi strappò alla Juventus che, non so per quale motivo, ha giocato a perdere, perché la cifra scritta in una busta sigillata con la ceralacca, 875 milioni, era molto più bassa del previsto e del mio verosimile valore di mercato.”Escono poi  i retroscena: la Juventus non avrebbe potuto concorrere con il Vicenza per la difficile situazione della Fiat, con migliaia di cassintegrati, Farina, invece, sarebbe stato indotto a questa supervalutazione da una soffiata di un amico, rivelatasi poi del tutto errata». 
     La stagione si concluse però con la retrocessione e passò in prestito al Perugia, giunto a sua volta al secondo posto. Giunge poi lo scandalo del calcioscommesse, l'accusa di aver truccato la partita Avellino- Perugia, nella quale realizzò una doppietta, e la squalifica per 2 anni «Non sapevo nulla delle scommesse: pensavo al classico pareggio accettato da due squadre che non vogliono farsi male. Seguii il processo come qualcosa di irreale, come se ci fosse un altro al posto mio. Capii che era tutto vero quando tornai a casa e vidi le facce dei miei» «Dopo cena, mentre sto giocando la solita partita a tombola, tanto per ammazzare il tempo, mi si avvicina il mio compagno Della Martira  "Paolo, vuoi venire un attimo che ci sono due amici che vogliono conoscerti?". Non sono capace di dire di no. Controvoglia affido le mie cartelle a Ceccarini e mi alzo. Nella hall vedo due tipi che non avevo mai visto, stringo loro la mano: "Piacere". Non capisco cosa vogliano da me. Improvvisamente Mauro Della Martira dice: "Paolo, questo è un mio amico che gioca alle scommesse". E l'amico dell'amico in spiccato accento romanesco: "Paolo, che fate domenica?". Rispondo genericamente: "Beh, cerchiamo di vincere". "E se invece pareggiate?". Non capisco dove voglia andare a parare, sono imbarazzato anche se non lo do a vedere. Non vedo l'ora di liberarmi dall'impiccio. Rispondo: "Il pareggio non è un risultato da buttare. L'Avellino ha un punto in meno di noi, ha vinto con la Juve e ha perso soltanto con ilTorino". "Sai, abbiamo un amico dall'altra parte che dice che un pareggio andrebbe più che bene", aggiunge l'altro... "magari fai anche due gol". La discussione non mi piace per nulla. Voglio tornare alla mia tombola, queste facce non mi ispirano fiducia, taglio corto: "Mauro, mi aspettano, ci vediamo, fai tu" giusto per non fargli fare brutta figura. E torno al mio posto e riprendo a giocare. Tutto è durato appena due minuti, quelli che diverranno i due minuti più angoscianti della mia carriera» Nel 1981, a un anno dalla scadenza della squalifica “Boniperti mi chiamò: "Verrai con noi in ritiro, ti allenerai con gli altri, anzi più degli altri". Mi sono sentito di nuovo calciatore. La lettera di convocazione adesso farebbe ridere. Diceva di presentarsi con i capelli corti, indicava cosa mangiare e cosa bere. Boniperti era un mago in queste cose. Quando arrivai mi disse: "Paolo, se ti sposi è meglio, così sei più tranquillo". Mi sono sposato a settembre. L'avrei fatto lo stesso, diciamo che sono stato un po' spinto”. Tornò a giocare in campionato nell'aprile 1982. Il resto è storia, anzi mito, soprattutto quel 5 luglio 1982, con la tripletta al Brasile che fece piangere un intero paese. “Nel 1989, quando avevo oramai terminato la mia carriera, mi trovavo in Brasile, a San Paolo, per disputare un torneo di nazionali giocato da ex calciatori e una sera salendo su un taxi per rientrare in hotel il tassista brasiliano riconoscendomi dallo specchietto mi ha fatto scendere dall’auto.”
    «Il primo gol al Brasile, lo ricordo come il più bello della mia vita. Non ho avuto il tempo di pensare a nulla: ho sentito come un senso di liberazione. È incredibile come un episodio possa cambiarti radicalmente: niente più blocchi mentali e fisici. Dopo quel gol, tutto è arrivato con naturalezza» 
    A Zico, che aveva accusato l'Italia di  aver creato «un calcio fondato sulla distruzione del gioco avversario e sul fallo sistematico» rispose così: «Quel 3-2 fu una lezione per la quale il Brasile ci dovrebbe ringraziare e darmi un premio. Una sconfitta dalla quale impararono molto, soprattutto a giocare più coperti. Tanto è vero che poi hanno vinto altre due edizioni del Mondiale. Zico naturalmente si lancia in un paradosso e non penso che a quella vittoria si possa attribuire un peso così grande. È vero, invece, che da allora il loro approccio è cambiato, è diventato più guardingo, si sono europeizzati. Anche perché tanti brasiliani hanno conosciuto i campionati del nostro continente. Eppure vederli giocare è sempre uno spettacolo. Pur evolvendosi, il loro calcio è rimasto lo specchio di un paese dove lo spettacolo resta importante» 
    Poi rimase alla Juve fino al 1985, quando passò al Milan di Farina «In bianconero ho vissuto dei momenti molto belli, ma anche alcuni molto brutti. Ad un certo punto ero stufo di calcio, andavo agli allenamenti perché ero costretto. Mi sembrava che attorno a me mancasse totalmente la fiducia, quando dovevano sostituire un giocatore, toccava sempre a Rossi. Mi sembrava una scelta fatta a tavolino, ci restavo male. Con i tifosi juventini non mi sono mai trovato bene, forse ha rovinato il rapporto la faccenda dell'ingaggio, quando avevo chiesto qualche soldo in più. Oltretutto nella Juventus giocavo in una posizione poco congeniale alle mie caratteristiche, ma mi sono adattato, anche sacrificandomi. Alla Juventus ho imparato tantissime cose, la società voleva confermarmi ma io, ormai, mi sentivo come un leone in gabbia. Meglio cambiare aria» Nel 1986 passò al Verona, dove chiuse, a soli 31 anni, a causa dei ginocchi malconci, la carriera. oggi titolare di un’azienda agrituristica in Val d’Ambra. Si è scritto spesso che Antonello Venditti lo ha citato nella canzone Giulio Cesare, ma il cantautor, notoriamente romanista e quindi fan di Pruzzo, ha precisato che si tratta di un altro Paolo Rossi “«In 'Giulio Cesare' faccio riferimento a Paolo Rossi, ma non è l'eroe del Mundial di Spagna come in molti pensano ed hanno pensato. Io ricordavo uno studente morto negli scontri tra studenti e polizia a Roma nel 1966. 'Un ragazzo come me', appunto» 

    Auguri anche a 
        
    FABIO SIMPLICIO, 1979, centrocampista brasiliano  del Batatais (Campeonato Paulista Série A2)  ex Parma, Palermo e Roma. Al San Paolo, da ragazzino fu compagno di squafra di Kakà. E' tornato a giocare, nonostante una stazza ormai pachidermica, meritevole di un ingaggio nel Grasshoppers. A differenza di altri giocatori brasiliani (Socrates, il mitico Aristoteles della Longobarda) porta non il nome, ma il cognome di un filosofo, il bizantino Simplicio (490-560)

    SERGIO BRIGHENTI, 1932,  ex attaccante di Modena, Inter, Triestina, Padova, Sampdoria, Modena, Torino

    ETTORE GLIOZZI, 1995, attaccante del Sudtirol, in prestito dal Sassuolo

    CRISTIAN AGNELLI, 1985, centrocampista del Foggia, di cui è capitano e che paradossalmente, nonostante il cognome che si ritrova, non ha mai giocato, nemmeno nelle giovanili, nella Juventus

    RAFFAELE DE VITA, 1987, ala sinistra, svincolato. Nato a Roma e tifoso laziale, ha trascorso la sua intera carriera in Inghilterra (Blackburn, Swindon Town, Branford City, Chelthenham Town) e Scozia (Livingston e Ross County). A 13 anni giocava nell'
    Atletico 2000, società gestita da tre leggende della “Maggica” Odoacre Chierico, “O’ Rey” Roberto Pruzzo e “il Principe” Giuseppe Giannini. “all’Atletico 2000, ho incontrato Odoacre Chierico ed ho iniziato a intendere il calcio in un’altra maniera. Lui mi ha insegnato una marea di cose, praticamente passavo ogni pomeriggio ad allenarmi con lui, imparando in fretta a ragionare da professionista. . All’Atletico 2000 rimasi meno di una stagione, perché a febbraio avevo già firmato con il Blackburn Rovers dopo essere stato da loro per un provino di una settimana a gennaio. Ricordo, che qualche mese prima di gennaio, Chierico mi aveva parlato di un osservatore inglese, Richard Glass, che sarebbe venuto a vedermi giocare. Successivamente, dopo Natale, Chierico iniziò a parlarmi della possibilità di un provino con il Blackburn. Inizialmente non diedi molto peso a quelle parole, poi ricordo che da un momento all’altro mi ritrovai con i biglietti dell’aereo prenotati per l’Inghilterra, con Chierico e mio zio ad accompagnarmi. La mia avventura in Inghilterra inizia nel luglio del 2003, avevo sedici anni e venni inserito nella formazione under 17. Al Blackburn ero chiuso da mostri sacri come Santa Cruz, Benny McCarthy e Nonda così parlai con mister Mark Hughes e decisi di andar via per trovare maggiore spazio. Quell’estate insieme al mio procuratore eravamo alla ricerca di una sistemazione, ma l’idea di tornare in Italia non la vedevo come una soluzione stimolante. l’idea di tornare in Italia mi spaventava. Sentivo tanti ragazzi della mia età che giocavano in Italia e ognuno di loro si lamentava per mancanza di serietà da parte dei club, stipendi mai percepiti, società sempre sull’orlo del  fallimento. Poi, dopo cinque anni in Inghilterra pensavo che il mio futuro oramai fosse li. Venni contattato da un signore romano che avevo conosciuto qualche mese prima, mi disse che insieme ad un altro italiano avevano acquistato il Livingston, società di prima divisione scozzese, ed avevano grandi progetti per il futuro. Così firmai per tre anni. L’esperienza iniziò malissimo, mi infortunai al crociato nella prima amichevole e in quei giorni ho dovuto fare i conti con l’evento più doloroso della mia vita, la perdita di mio padre. La gestione italiana durò poco, il club retrocesse di due categorie. Io decisi di rimanere perché avevo assoluto bisogno di giocare, ma dopo tre anni decisi che era il momento di cambiare aria. arrivò così la chiamata di Paolo Di Canio che tmi volle con lui allo Swindon Town. Per me, tifosissimo della Lazio, 
    fu un emozione fortissima, per me Di Canio era una figura quasi divina. Ricordo ancora la mia cameretta tappezzata dai suoi poster durante i miei anni al Blackburn. E’ stata l’esperienza più bella che ho fatto fin’ora, un allenatore come lui è difficile da trovare: ha una passione fuori dal comune, riesce a motivarti in qualsiasi momento. Allo stesso tempo, è esigente e perfezionista. Gli anni trascorsi con lui sono stati una svolta, mi ha completamente cambiato. Inoltre, con lo Swindon siamo riusciti a vincere un campionato, arrivando ad un passo dalla promozione in Championship.” Dopo l'addio di Di Canio,De Vita decide di lasciare Swindon e firma un contratto di un anno con il Bradford, team del nord dell’Inghilterra dal passato glorioso. La nuova esperienza comincia bene, ma nel dicembre 2013 Raffaele si ferma a causa di un brutto infortunio che ne condiziona il resto della stagione. Il 2014, probabilmente, è l’anno peggiore della sua carriera. Nel Bradford, anche per via di quel maledetto infortunio, De Vita gioca poco o niente e non gli viene rinnovato il contratto. A giugno si ritrova svincolato e a settembre firma un accordo di tre mesi con il Cheltenham, in League Two. Un team relativamente piccolo, dove De Vita colleziona tredici presenze complessive senza riuscire a incidere. Nel suo momento più difficile, gli arriva in soccorso l’ultima ancora di salvezza, la Scozia. Quello stesso Paese che lo aveva lanciato nel calcio che conta, con l’esordio in prima squadra nel Livingston e due stagioni giocate da protagonista e conquistatore di una doppia promozione consecutiva. Il salvagente glielo lancia il Ross County, minuscolo team della serie A scozzese dell’altrettanto minuscola cittadina di Dingwall, 5.000 abitanti, a due passi da Inverness, nella regione delle Highland. 

    Altre Notizie