Il 'fratello' di Krasic|: 'Nato per segnare e dribblare'
Milan Jovanovic, attaccante del Liverpool, ha giocato, vissuto, riso, pianto, insieme a Milos. Che sarebbe diventato un fuoriclasse, lui l’aveva capito al primo allenamento, quando un Krasic poco più che quindicenne aveva sparato un dribbling incantandolo: «Mai visto così tanto talento in un ragazzino»
Milan Jovanovic, ci racconta come ha conosciuto Milos Krasic e come siete diventati amici per la pelle?
«Una scena che non scorderò mai. Era il 1999, eravamo nel pensionato dove vivevano i giovani della Vojvodina a Novi Sad. Milos era arrivato da pochi giorni quando ci fu il primo bombardamento della Nato sulla città. Tutti i ragazzi scapparono nei rifugi sotteranei, io rimasi nell’appartamento. Non so perché, a pensarci ora è una follia, ma allora volevo vedere cosa stava succedendo alla città e volevo stare davanti alla la tv che dava aggiornamenti in tempo reale. Poi mi giro e vedo che non sono solo. C’era Milos, che era il più giovane di tutti, aveva 15 anni, ma era lì con me: voglio vedere anche io».
Non aveva paura?
«Certo che aveva paura. Avevo una paura fottuta anche io, quelle erano bombe vere, ma sfidavamo quella paura opponendo tutto il coraggio che riuscivamo a trovare. Forse pensavamo che se fossimo stati abbastanza coraggiosi le bombe non sarebbero mai cadute sul nostro appartamento».
Quel pomeriggio vi ha legati indissolubilmente?
«Quel pomeriggio è iniziata la nostra amicizia. La vita e il calcio l’hanno cementata negli anni: ora per me Milos è un fratello minore, una persona di famiglia. D’altra parte fu proprio suo padre a dirgli:“segui quello che ti dice Milan” quando lo portò alla Vojvodina di Novi Sad. La Stella Rossa l’aveva scartato dopo un provino, ma il padre non voleva tenerlo a Mitrovica nel Kosovo, troppo pericoloso allora. Così lo portò a Novi Sad dove giocava anche suo fratello maggiore. Il padre, quindi, mi conosceva e disse: "Stai con tuo fratello e segui i consigli di Jovanovic"».
E lei che consigli gli diede?
«Beh (ride) il primo è stato: non ascoltare gli allenatori. Non seguire nulla di quello che ti dicono. Non esattamente un consiglio da persona saggia, no? Ma avevo una buona ragione».
Quale?
«La prima volta che l’ho visto su un campo da pallone ho capito subito che era un grande. In quel preciso momento ho avuto la certezza, la certezza vi dico, che sarebbe diventato un grande campione. Mai visto un così cristallino talento in un giocatore. Era ed è probabilmente uno dei talenti migliori degli ultimi vent’anni e non volevo che gli allenatori lo bruciassero con le loro manie tattiche del calcio a un tocco o due. Gli dicevo: vai Milos, sogna e dribbla, sogna e dribbla, non pensare al calcio a due tocchi, tu sei fatto per stupire».
Le ha dato retta...
«E io non sono sorpreso di quello che sta facendo alla Juve. Anzi, sono qui che aspetto che vi mostri molto di più, per ora ha espresso solo una parte del suo talento. Vedrete, vi stupirà ancora. A voi...».
Cos’ha di così magico?
«Lui non deve pensare a quello che fa: è tutto naturale, è tutto istinto. Non perde tempo a ragionare, le gambe vanno da sole e sanno cosa fare: saltare l’uomo. E ora è anche un giocatore disciplinato dal punto di vista tattico, ora fa bene ad ascoltare l’allenatore. Ora che è diventato un fuoriclasse, non corre più il rischio di diventare un giocatore industriale come sarebbe diventato se dava ascolto agli allenatori d’allora».
Dopo le giovanili, nelle quali non avete mia giocato insieme, vi siete ritrovati nella prima squadra della Vojvodina. Com’è stata la prima volta con lui in campo?
«Ero emozionato per il mio amico. E lui lo era per il debutto. Io avevo diciotto anni, lui sedici. E, sapete, non era ancora così forte e veloce: lo è diventato con gli anni, allenandosi e facendo molta palestra. Poi siamo andati a Mosca e anche se giocavamo in due squadre diverse, io nella Lokomotiv e lui nel Cska vivevamo praticamente nello stesso appartamento. Anche ora, in Nazionale, dividiamo la stessa camera e non riesco mai a dormire».
Russa?
«No, ti fa ridere! Voi non potete ancora saperlo perché Milos non parla italiano, ma ha un senso dell’umorismo travolgente. Scherza in continuazione, tiene sempre lo spirito alto, è la locomotiva che traina il gruppo verso l’atmosfera giusta. E’ difficile spiegarvi le sue battute, tipico umorismo serbo, ma penso che riuscirà a farvi ridere pure in italiano. Dategli solo il tempo di impararlo».
Ci racconta qualcosa che non sappiamo di lui.
«Allora vi racconto quello che ho scoperto anche io quest’estate al Mondiale. Dopo la sconfitta contro il Ghana ho conosciuto un altro Krasic. Era triste, arrabbiato, l’ho visto piangere per la delusione e l’ho visto tirare fuori tutti quei sentimenti sul campo di allenamento nei giorni successivi. Tutta la maledetta voglia di rivincita che aveva è riuscita a trasmetterla alla squadra come sa fare con il buon umore. E in campo, contro la Germania, è stato pazzesco: sì, è vero, il gol di quella vittoria storica per tutto il nostro Paese l’ho segnato io, ma Milos li ha uccisi con la sua grinta e i suoi dribbling. Ho letto le statistiche a fine match: Krasic ha saltato 12 volte Badstuber. Dodici! Lì ho capito che Milos non aveva solo talento, aveva anche... le palle. Si dice così pure da voi?».Può avere a che fare con il fatto di aver vissuto un’infanzia sotto le bombe?
«Sì, quello ci ha fatto crescere più in fretta e ci ha dato più coraggio: quando hai visto cadere le bombe sulla tua città non è un avversario che ti può fare paura, anche se si chiama Messi o Ronaldo. Milos, io, e quelli della nostra generazione sono diventati uomini prima, ma non è un’esperienza che vorrei far ripetere a nessuno. Rimpiango una gioventù più normale e chissenefrega diventare uomini prima. Io voglio che i miei figli e quelli di Milos crescano in un Paese in pace e senza bombe. Si può diventare uomini anche senza quelle, ne sono certo».