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    Il duro Simeone e Gabi, l'ultima speranza per un'Inter di cristallo

    Il duro Simeone e Gabi, l'ultima speranza per un'Inter di cristallo

    • Fernando Pernambuco
    Non c’è bisogno di tante statistiche ( una vittoria della Liga, una finale di Champions, terza semifinale nelle ultime quattro…): l’Atletico Madrid non è una società, un campione, un presidente. E’ lui: Diego Armando Simeone, “El Cholo”. E mai quest’epiteto, affibbiatogli da Victorio Spinetto, suo primo allenatore nel Velez fu più azzeccato. Lo vide subito, già nelle giovanili, quando scendeva in campo nel “Fortin” di Liniers, sobborgo porteno e teatro di furibondi duelli soprattutto contro il Ferro Carill Oeste. Lo chiamò “El Cholo”, Spinetto, non solo in onore dell’arcigno Carmelo Simeone, difensore del Velez negli anni ’50, ma soprattutto per il suo carattere. Per come sradicava palloni davanti alla propria area e per come li ripiantava in quella avversaria. Per  come scuciva e ricuciva il gioco. E per la grinta dei mezzosangue arrabbiati, che non mollano mai, che non sentono né la fatica, né il dolore. Quelli come Monzon, per intenderci.

    Cholo”, ovvero meticcio, indigeno con sangue spagnolo, ma anche uomo da cui guardarsi.Choli” in Messico erano i panderillos, quelli che assomigliavano ai gangster americani. Fin da giovane, questo Diego Armando si situò all’opposto dell’altro Diego Armando più forte del mondo. Il suo tratto dominante: carattere unito a durezza. Se ne andò (o lo allontanarono) dall’Inter di Simoni per incompatibilità con l’idolo Ronaldo. Argentino fino al midollo, non nascondeva la sua avversità verso i brasiliani e si spingeva più in là, fino alla matrice storica del Brasile: il Portogallo. Ne seppero qualcosa Fernando Couto, per altro detto “testata calda” e l’allenatore della Lazio dello scudetto (Eriksson) che pensò bene di sospenderli entrambi, rischiando la sconfitta sul campo. El Cholo fu l’anima di quella Lazio che soffiò lo scudetto alla Juve nell’ultima giornata, come lo fu all’inizio della sua carriera europea, proprio nell’Atletico Madrid a cui è ritornato in veste di allenatore, applicando in pratica ai “Colchoneros” la calcomania di se stesso.

    Ovvero un gioco fatto di aggressività difensiva e contropiede, di pressione asfissiante perché prima di tutto bisogna “togliere o meglio sporcare il pallone”: rompere per ricostruire, proprio come faceva lui. Sacrificio, disponibilità, determinazione, sono i comandamenti di Simeone, il cui primo imperativo è : la riconquista del pallone. “Poi, si vedrà” dicono i suoi critici che lo accusano di applicare un catenaccio solo più dinamico, dominato dall’ ossessione (difensiva) dell’uno contro uno. “El Cholo” legge il calcio come una serie di duelli individuali nei quali l’avversario va costantemente braccato, fino all’ asfissia, raddoppiando e triplicando, costringendolo a perdere il pallone o spostarlo  “sul piede più debole”. I primi a cui incute timore sono i suoi giocatori. Li esalta , ma li atterrisce, in una specie di terapia dell’obbedienza tattica e del rispetto di stampo prettamente militareschi. Chi corre poco, chi si distrae, chi osa dire: “Scusi, Mister, ma…”, va fuori.

    El Cholo” è soprattutto disciplina e furore. Andrebbe bene nella cristalleria che ormai da tempo è l’Inter? Forse sì. Anzi sì, con un ma. Dopo troppe raffinatezze (Mancini), alchimie (De  Boer), pacatezze (Pioli) forse all’Inter non resta che provare con la durezza e la determinazione di Simeone. Già: e la cristalleria? Non andrebbe in frantumi? Forse in piedi resterebbe solo Medel, forse dall’Atletico vorrebbe prendersi almeno quel Gabi che detta sempre il pressing e che gli altri compagni seguono.

    “Hay cosas che non se esplican, muchachos”, ma che si vedono e che devi avere dentro. Diego Armando quanti ne troverebbe con queste “cosas” all’Inter di oggi?

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