Italia, gioventù bruciata: stato comatoso del calcio giovanile
Sono le parole che sentiamo una volta a settimana (per stare stretti) rimbombare dalle trombe gonfiate dei nostri media più grossi e influenti, senza che poi si vada realmente a spiegare l'iceberg che fa emergere questa punta.
Perché forse non conviene poi così tanto al sistema calcio che si faccia emergere il backstage di uno spettacolo sempre più prodotto e sempre meno spontaneo, a partire dallo stato comatoso in cui versa oggi il calcio giovanile.
Se ne è parlato in profondità all'Arena Civica "Gianni Brera" di Milano sabato 24 ottobre, in una mini convention a cui sono stato fiero di partecipare e dove non ho visto telecamere né noti taccuini a prender nota di quanto si stava dicendo a proposito di Giovani Promesse e di dove va a parare il calcio moderno (questo il nome dell'evento). La copertura mediatica totalmente assente si sottolinea nel fatto che l'evento non è stato annunciato né riportato in nessun trafiletto di alcun quotidiano o sito web.
Il discorso portato avanti da Felice Accame, docente di Teoria della Comunicazione presso il centro tecnico della FIGC, è stato concettualmente semplice nella sua ricchezza di linguaggio: il calcio giovanile non è nient'altro che un ascensore sociale, a volte una fastidiosa anticamera di chi insegue il mondo dorato del professionismo ad alto livello pensando che magari sia un diritto dovuto e che questa è una caratteristica che non riguarda solo i ragazzini ma anche gli allenatori.
I ragazzini, poi, non decidono da soli un'ambizione di cui non possono avere la fotografia completa e formata, quindi va da sè che dietro l'eccitazione di un ragazzino c'è un genitore che carica a testa bassa perché il sangue del suo sangue arrivi dove magari non è mai riuscito ad arrivare lui, in un mondo spettacolarizzato.
Un mondo dove nei corsi di formazione ai DS, spiega sempre Accame, l'argomento ormai cruciale è quello dei diritti Tv che questo prodotto lo devono vendere e non è raro che si inviti al finto litigio tra allenatore e giocatore per rendere più appetibile l'immagine dagli spogliatoi, una delle altre diavolerie di contorno al calcio di cui tutti potremmo fare a meno (come ne abbiamo fatto tranquillamente a meno fino a un lustro fa) e che viene invece pubblicizzata come una grande ed irrinunciabile esclusiva.
Sul fatto dei genitori troppo spinti ha parlato con dovizia di particolari Sanzio Anzani, Responsabile Tecnico Pre-Agonistica P.D.Cimiano che con questo problema nella sua scuola calcio ha a che fare tutti i giorni e che assicura come la valenza pura del calcio sia ormai irrimediabilmente svanita, perdendo totalmente di vista perchè un bambino dovrebbe giocare a pallone per se stesso e la sua formazione attraverso lo sport, piuttosto che per riempire i vasi spesso di coccio che gli fanno dalla tribuna le richieste più assurde.
Ad esempio, spiega Anzani, capita di vedere bimbi del 2010 che si sono avvicinati al calcio da tre settimane che, in una partita 5 contro 5 senza alcuna pretesa, vengono ripresi dai genitori perchè non fanno il contromovimento ad evitare la marcatura avversaria. Bambini di cinque anni che sono ostaggio di genitori-allenatori in preda a deliri di onnipotenza ed imposizioni tattiche che non hanno alcun senso di esistere: come se a un bimbo alla prima lezione di chitarra venisse imposto l'assolo di "Smoke on the Water" e guai a sbagliarlo.
Una bella fotografia della totale irragionevolezza e schizofrenia in cui le nuovissime generazioni stanno crescendo.
Non c'è bisogno di andare molto lontano, comunque: provate ad andare a seguire una partita di ragazzini nel campo più vicino a voi e nove volte su dieci vedrete genitori che dicono e fanno cose ben peggiori dei tanto additati ultras, soprattutto perchè lo fanno di fronte ai loro figli: una logica in cui l'avversario di turno diventa un nemico da cancellare ad ogni costo e con ogni mezzo ed in cui il messaggio che passa è che il fine giustifica sempre i mezzi e che la competizione spinta può calpestare senza problemi i valori che lo sport, per come lo intendo io, dovrebbe trasmettere.
Finisce che poi i bambini si rompono le scatole e abbandonano: in un'esperienza di un bambino di 10 anni raccontata dalla scrittrice e drammaturga Elisabetta Bucciarelli, traspare tutto meno che il sacrosanto divertimento che il pallone dovrebbe dare all'infanzia.
In nome della vittoria si può anche non parlarsi e non fare gruppo, in nome della vittoria si può essere portati in trionfo se va bene o essere caricati di critiche e pressioni se va male.
Questo è raccontato dall'esperienza: un bambino che si allontana irrimediabilmente dal calcio e dichiara di non essere pentito, perché a fare il professionista senza averne l'età e il dovere, il gioco non vale più la candela. Per un caso come questo ce ne sono un'infinità di altri dove lo spiraglio di ascesa sociale fa la differenza: lo spiega benissimo Luca Vargiu, autore e intermediario sportivo, quando dice che ci sono 600mila ragazzini che giocano e 2500 posti tra i professionisti, molti dei quali restano occupati per 10-15 anni.
Non serve essere matematici per capire che il rapporto è sbilanciato in maniera imbarazzante verso chi non ce la farà, ma guai a tentare di spiegarlo: l'intermediario deve vendere la possibilità che invece sia tutto semplice e fare così soldi e carriera maneggiando i sogni degli altri, questa è la situazione che alla fine rimane del calcio giovanile. Con genitori che pettinano i loro bimbi come Vidal e li espongono come fenomeni circensi a fare doppi passi ed elastici nei video che mandano agli intermediari come Vargiu per sponsorizzare le loro creature.
Se l'intermediario li informerà che farcela sarà durissima è lui a sbagliare nel dire la verità, perché in questo mondo fatto di chiacchiere ed ipocrisie c'è anche chi si è convinto che sia meglio vivere in un incantesimo piuttosto che adeguarsi alla realtà.
E dunque, continua Vargiu, si crea un vero e proprio listino prezzi: pagare per giocare, una pratica diffusa e taciuta nei piani bassi del professionismo.
In questa finanziarizzazione spinta, descritta da Pippo Russo che ai frequentatori del mio blog è un nome arcinoto, oltre a creare un percorso totalmente diseducativo in relazione se orientato ai valori dello sport succede anche che ci siano diritti di formazione rivendicati da più parti nel momento in cui il ragazzino diventa un uomo pronto al grande salto: ecco come un giovane calciatore italiano fa schizzare la propria valutazione, in modo che chi gli è stato intorno concretamente o meno riesca ad aggiudicarsi una fetta della torta.
Non stupisce allora se nelle giovanili diventa più conveniente e semplice andare a pescare il ragazzino africano, che costa pochissimo alle Società e non necessariamente guarderà schifato l'intermediario se gli si dice che ci può essere posto per lui nei campionati dilettantistici come invece succede spesso, secondo quanto riferito da Vargiu, se questa proposta la si fa a ragazzi e genitori nostrani.
Il fatto che poi ci sia una formazione di qualità, riferisce Accame, importa poco e niente alla FIGC che non aggiorna i corsi di formazione su elementi fondamentali per la crescita dei ragazzi da almeno 30 anni, quando fu introdotto un corso sulle tecniche di comunicazione essenziali per spiegare ai ragazzi nel modo giusto i principi di tecnica e comportamento calcistico.
Conta invece la quantità delle formazioni, pur essendo queste spesso il veicolo per spiegare come si possa diventare un possibile ingranaggio di uno show business che mentre mostra la faccia migliore alle televisioni vede una miriade di società dilettanti e professionistiche chiudere bottega dall'oggi al domani. I media, poi, saranno sempre meno avvezzi a controllare queste situazioni visto che esistono partnership, come ad esempio quella tra il Corriere dello Sport e la FIGC, che non dovrebbero mai esistere, dal momento che il controllante ed il controllato non dovrebbero mai stringere accordi commerciali per non incorrere nel famigerato conflitto di interesse.
Il calcio giovanile in Italia sembra oggi un paziente in coma a cui viene messa una flebo ogni tanto per non interrompere le funzioni vitali minime, mentre fuori dalla stanza in cui è ricoverato c'è un gran vociare di dotti, medici e sapienti che litigano sulla cura senza mai visitare il paziente, perchè in fondo se il paziente si riprende può anche essere che posto per i loro ruoli e le loro opinioni domani non ci sia più.
"Non si pensa mai a nostri giovani", dicevamo.
Se dicessimo però "non vogliamo pensare ai nostri giovani" saremmo meno ipocriti e più concreti.
Fulvio Santucci