'Ecco perché Socrates non si ambientò alla Fiorentina'
L.C.
Ha fatto parte di una delle squadre più forti di tutti i tempi, la nazionale brasiliana del 1982. Quella di Zico, Falcao, Junior, Cerezo, ma soprattutto sua, il capitano di quella formazione fenomenale che l’Italia di Bearzot riuscì a superare in quel magico Mondiale grazie alla tripletta di Paolo Rossi. Ma Socrates non è stato soltanto un grande giocatore. Medico (ma incallito fumatore e bevitore) seduttore, sensibile ai temi sociali e politici, è diventato un mito. Più radicato in Brasile, per certi versi, anche di quello di Pelè. Al calciatore, scomparso nel dicembre del 2011 il regista Mimmo Calopresti e il giornalista Marco Mathieu hanno dedicato il documentario “Socrates, uno di noi” che è stato presentato sabato scorso a Cagliari per il festival Marina Cafè Noir. Calopresti, perché Socrates? «Perché non era solo un giocatore. Si occupava delle vite delle altre persone, di medicina, di politica, di tante cose. Una persona da ammirare». Un grande personaggio, unico per certi aspetti. Perché allora nel titolo avete voluto usare “uno di noi”? «Perché comunque Socrates era uno del popolo, in qualche modo uguale a quelli che lo seguivano». Avete pensato alla possibilità di fare un film di finzione al posto di un documentario? «Sul calcio non ci sono molti film di finzione e non funzionano quasi mai. Forse quello su Best che non era male. Si vede che il calcio è complicato, forse perché è un gioco di squadra. Non lo so, ma è difficile». Avete girato in un Brasile che si preparava a ospitare i Mondiali. Che paese avete trovato? «Un paese dalle grandi contraddizioni. Come sempre i grandi investimenti possono essere occasione di benessere, ma il problema è vedere chi ci guadagna. Se le cose cambiano anche per le persone comuni. Sul futuro c’è incertezza. Comunque il Mondiale dal punto di vista organizzativo mi è sembrato buono. La grande delusione per i brasiliani è stata sul campo, c’erano molte aspettative sulla nazionale. Certo non era il Brasile di Socrates». Anche quello non vinse. «Ma resta una delle squadre più forti di tutti i tempi. Quando chiedevano a Socrates come mai avessero perso quella partita, lui rispondeva: “Abbiamo sempre voluto giocare da Brasile, al di là del risultato”. Era proprio un’idea di calcio». Un altro calcio. «Viene un po’ di nostalgia. – ha aggiunto Calopresti al quotidiano La Nuova Sardegna - Un calcio molto diverso, fatto di campioni eccezionali. E più umano di quello di oggi». Tutti i più grandi calciatori venivano in Italia. Anche Socrates che però alla Fiorentina giocò solo un anno. Perché non funzionò? «In parte perché arrivò nel nostro campionato già verso la fine della sua carriera. Dall’altra non si adattò completamente all’Italia. Per il suo modo di fare, di allenarsi. E in campo i compagni di squadra non giocavano per lui, non erano disposti a dargli quel ruolo di leader». Tornato in patria dopo qualche anno si ritirò. Oggi che ricordo hanno in Brasile di Socrates? «Ottimo. Ha lasciato un grande segno, non solo sul campo. Un segno politico. Per esempio con la famosa Democrazia Corinthiana, l’autogestione dello spogliatoio quando giocava al Corinthians, che diventò poi democrazia politica per il paese. Anche i giovani, i calciatori di oggi, hanno come un’idea mistica di Socrates. Nel documentario parla di questo Castan che oggi gioca nella Roma». Laureato in medicina, ritiratosi dal calcio iniziò la carriera da medico. Però non seguì mai una vita regolare, perché? «Era un uomo libero e sostanzialmente non gliene fregava granché. Aveva fatto tutto quello doveva fare, la birra era il suo divertimento. Il suo modo di stare al mondo era bohèmienne, di uno che sta ai margini. L’idea di stare ai margini per lui era importante. Ed è finito esattamente così». Per uno gioco del destino il giorno della sua morte, il 4 dicembre del 2011, il Corinthians, la sua squadra, vinceva lo scudetto brasiliano. «Aveva detto di voler morire il giorno in cui il suo Corinthians sarebbe tornato campione. E così è stato. Prima dell’inizio i giocatori in campo e il pubblico hanno alzato il braccio con il pugno chiuso. Ricordando il suo gesto da calciatore sempre impegnato».