È morto Bruno Pesaola: il ritratto
Per ricordarlo in figurina, bisogna avere più di cinquant'anni: obiettivamente troppi, per la media di questo sito e in generale per il mondo di Internet. Per ricordarlo e basta, ci sono le testimonianze che attraversano il tempo. Dagli anni del Dopoguerra, quando giovane attaccante lasciò l'Argentina per tornare in Italia, Paese che il papà calzolaio aveva lasciato cent'anni fa.
Una buona carriera, nulla di eccezionale in avvio. Anche per colpa di un infortunio terribile, all'epoca: frattura di tibia e perone. Giocava nella Roma. Fu la sua sfortuna, diventò la sua fortuna. Costretto a cambiare squadra perchè si diceva avesse già finito la carriera, approdò prima al Novara e poi nel "suo" Napoli.
Nella città che gli ha fatto compagnia fino alla morte, non fece fatica a diventare subito "napoletano". Per otto anni in campo, compreso un giorno storico: quello dell'inaugurazione dello stadio San Paolo, il 6 dicembre del 1959. Simpatico, furbo, brioso. Velocissimo a parlare, pensare e giocare. Ma il bello doveva ancora venire, come dirà qualcun altro tanti anni dopo.
Il bello di Pesaola era la panchina. Astuto come un argentino e ironico come un napoletano, non fece fatica a diventare l'alternativa calcistica e dialettica del Sud allo strapotere milanese di Rocco al Milan ed Herrera all'Inter. Le foto dell'epoca sono in bianco e nero, e restano un po' sgualcite perfino quelle poi digitalizzate. D'inverno il Petisso ha un cappottone di cammello. Nelle stagioni più calde non evita mai giacca e cravatta. E nemmeno una sigaretta. Ne fumava tre pacchetti al giorno. In quegli anni non c'erano i cartelli "no smoking". Non si sapeva che facevano male. E comunque ha vissuto fino a 89 anni...
Di tutta la sua storia, soprattutto "partenopea" come si diceva allora e ora è fuori moda, la gioia più grande è però da allenatore della Fiorentina. Vince il secondo scudetto viola, storico come lo sbarco sulla luna, che avvenne pochi mesi dopo, in quell'estate del 1969.
Sulla panchina del "suo" Napoli venne chiamato in tre occasioni: più significative che vincenti, in verità. Ma quelli erano altri anni, rispetto all'attualità più poveri e difficili per il calcio napoletano. Eppure conquistò un'immensa considerazione, tanto da ricevere la cittadinanza onoraria: un diploma incorniciato con orgoglio, nella sua bella casa del Vomero.
Chi ricorda Bruno Pesaola deve avere più di cinquant'anni. Il resto sono discorsi, storie ma non leggende. E' vero quel che si legge navigando per siti: più di una volta, dalla panchina, a beneficio dei tifosi gesticolava di andare all'attacco ma in realtà ordinava i suoi giocatori a stare tutti in difesa. Oggi l'avrebbero processato come difensivista, a quei tempi no. Anzi. Ed è tutto vero anche quel che si legge sulla sua pagina Wikipedia. Alla vigilia di un'Atalanta-Napoli promise ai giornalisti una partita tutta d'attacco. Invece si vide un catenaccio epico, mai una volta oltre la metà campo. Finì 0-0. I giornalisti gli chiesero conto della promessa non mantenuta. Lui non se la prese per la critica. Ribattè che non era un bugiardo. No. Più semplicemente... "Me hanno rrubato la idea", disse con accento argentino, aspirando una boccata di sigaretta. I giornalisti scoppiarono a ridere. Lui no. Perchè aveva i tempi giusti, anche per l'ironia. E va ricordato anche per questo, ora che il suo tempo è finito.
Sandro Sabatini
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