Bucciantini: Di Natale, se glielo dicevano prima…
Sono tornati un po’ di assenti. Higuain e Hamsik, Llorente, Klose. Qualcuno per restare, altri per fare presenza, ma è già qualcosa. Loro sono l’aggiunta in questa giornata che grossomodo conferma un po’ tutto quanto già si era visto.
La Roma conclude una settimana cominciata con molte speranze elevate a certezze (“Sono sicuro che vinceremo il campionato”, parola di Garcia, e poi c’è stata l’avventata volontà – tattica e verbale – di affrontare il Bayern alla pari). È ingiusto ridimensionare la Roma dopo questi quattro giorni al di sotto delle pretese, e la Sampdoria si conferma squadra equilibratissima, che può impiegare tre attaccanti veri (anche se Eder si massacra di lavoro) e comunque asfissiare il campo degli avversari. Merito dei centrali difensivi che non si schiacciano in area e del quartetto molto atletico allineato a centrocampo, fatto dai due esterni bassi, e da Soriano e Obiang. In mezzo a loro talvolta gioca Palombo, capace anche di governare l’azione ma la fonte di gioco principale resta la riconquista del pallone. La produzione di calcio non è affatto notevole, ma la tenuta fa classifica: la Samp è riuscita a spremere 16 punti da una media di un gol a partita. E il passivo di sole quattro reti (peraltro 2 subite a Cagliari in inferiorità numerica) va a colpa degli avversari, anche della Roma che a Genova duella bene ma aggiunge poco negli ultimi trenta metri di campo. A noi Garcia continua a sembrare troppo parsimonioso nell’uso di Destro, ma il tecnico ha talmente tanti meriti che ogni critica fa quasi arrossire di superbia.
Il vero problema della Roma è l’andatura della Juventus. Molti si impegnano allo spasimo per distinguere la Juventus di prima da quella di dopo (Conte e Allegri). Il livornese sta cercando di cambiare qualcosa (Pereyra è un tentativo, anche da esterno) e lo fa con la delicatezza di chi anzitutto non può smarrire il passo miracoloso costruito dal predecessore. Infatti, è più importante aver ritrovato i gol di Vidal e Llorente, e aver allargato il serbatoio di soluzioni fin qui un po’ asciutto. La media è quella: da 15 mesi la Juventus viaggia così, a 100 punti a torneo. È chiaro che non esiste rivalità con nessuno, da quelle parti. Prima o poi ogni avversario dovrà accettare la disillusione. Chi aspetta partite più probanti fa bene, ma non ci conti troppo. Questo per dire che per ora non ci sono troppi segnali incoraggianti per chi insegue.
Più mossa la corsa al terzo posto dove l’altra volta inserimmo Lazio e Milan, e leggemmo fra i commenti alcune critiche, specie per la considerazione della squadra di Pioli. Eppure funziona: non fa troppe cose, anzi, spesso è scolastica. Ma si muove bene, attacca con varietà e non smarrisce mai il campo. Si lascia attaccare ma non dominare. E ieri ha aggiunto altri due gol “nuovi” al suo interessante inventario, la punizione effettata di Biglia, il vecchio gusto per il golletto di mestiere di Klose: certo che può lottare la Lazio. Quel piazzamento è senza padroni, forse anche senza gerarchie. Quattro squadre lotteranno fino in fondo e l’assenza dalle coppe europee è un vantaggio che Pioli (e Inzaghi) deve mettere a profitto. Solo Juventus e Roma hanno un differenziale gol fatti/subiti migliore. La squadra trova la porta con molte soluzioni, e subisce il giusto. Sempre – va ripetuto – con una buona impressione corale, in tutte le fasi di gioco.
Il Milan, allora. La partita con la Fiorentina non è stata bella ma nemmeno così brutta come troppi la raccontano. Non è facile giocare a piacimento contro i viola, già aver preso il possesso palla è un merito da non sottovalutare. I raddoppi difensivi hanno funzionato, sconsigliando a Cuadrado le iniziative personali (e frustrando tutte quelle tentate). El Shaarawy sembrava vivo ma gli è mancato l’appoggio di Menez, non al meglio della condizione. A destra Honda ha vissuto la stessa solitudine, ed è sembrato uno spreco, tanto era in palla il giapponese. Il supporto del centrocampo è stato meno continuo di altre volte, c’era preoccupazione di non perdere la mediana, gli esterni invece sono saliti con personalità (ma non troppa qualità). Le occasioni si sono ridotte a iniziative personali, con le alterne fortune del caso. In generale, c’è stata maggiore considerazione per l’avversario, e quel tentativo di anestetizzare la Fiorentina, abbassando la squadra e cercando comunque il palleggio, era sembrato tatticamente pregevole: infatti, per i viola nemmeno un tiro per molti minuti. Ilicic ha creato un problema di marcatura sulla trequarti, così come Bonaventura ha riavvicinato il Milan all’area avversaria: sono calcoli che solo il gol può premiare, è andata bene a Montella, ma la sua Fiorentina sembra più indietro, più faticosa specie nel disimpegno verticale, manca l’ultimo passaggio che nasconda un po’ la mancanza di qualità dell’attacco, che non segna nemmeno a campo aperto. La Fiorentina si sta indurendo su questa andatura: da gennaio la media è questa, per rientrare nella corsa per il terzo posto dovrebbe grossomodo raddoppiare i punti e i gol: non è facile, si capisce.
Vedevamo Milan e Fiorentina non riuscire nel più antico e semplice degli schemi (il contropiede), nonostante qualche spazio promettente: ma Aquilani non è Pizarro, e fra i rossoneri paradossalmente è stato finora Rami il più coraggioso nel primo passaggio: era in panchina, ed Alex e Zapata sono stati difensivamente ineccepibili. E ci tornava a mente l’Inter di poche ore prima. Il risultato è minimo ma fondamentale: l’Inter riparte come può dopo tanta pochezza, e tanta tensione. Non si poteva pretendere un’esibizione magnifica. Nemmeno il vantaggio e l’uomo in più hanno rasserenato la squadra. La palla viaggia solo se la trasportano i due giocatori di maggiore classe e personalità (Hernanes e Kovacic). Finalmente Palacio riesce a muoversi con anticipo sui difensori, e qualche spazio in attacco si crea. Ma il paragone con la partita successiva era proprio sui contropiedi abortiti, per vari motivi. Tre squadre di questa qualità e questo mestiere (Inter, Fiorentina, Milan) non sono riuscite a confezionare nemmeno un contropiede decente nonostante ampie praterie davanti (specie i nerazzurri e anche i viola). Per Montella è un fatto anche di tattica e di uomini: a parte Cuadrado, gli altri non hanno falcata, i due terzini avanzano con il passo dei difensori puri, i mediani sono palleggiatori, è una squadra che manca di corridori e di incursori e che cerca di occupare il campo con il palleggio. Per l’Inter è un problema di convinzione (Dodò, Obi, Mbaye: una partita come ieri gli esterni devono seguire fino in fondo l’azione, e non fermarsi dopo magari aver aiutato il palleggio, come ha fatto il brasiliano, che se prende fiducia può fare molto di più). Ed è un problema di caratteristiche tecniche: Hernanes e Kovacic vedono prima le loro possibilità, e dopo contemplano il possibile passaggio. Ma anche gli attaccanti di queste tre squadre devono fare di più: in campo aperto, bisogna essere cinici, puntare la porta, mettersi in condizione di farsi servire.
Cose che sono riuscite a Higuain, Callejon (come sempre) e perfino Hamsik nella solita partita confusionaria, lunga, senza padrone che ha vissuto il Napoli. È un canovaccio che potrebbe anche andare bene, per carità: uomini per sbranare gli spazi e risolvere senza tanta coralità ce ne sono in quantità. Infatti questa volta s’incastra tutto bene, il Napoli ritrova l’impressione di qualità ma l’idea di forza, robustezza, grandezza è ancora lontana. Eppure, basta un colpetto all’uscio per riportare il Napoli lassù, forse favorita per questa corsa – appunto – sena padroni.
Poche righe in chiusura per un giocatore eccezionale. A Udine c’è Di Natale: arrivò in serie A a 25 anni per una sua vanità giovanile: voleva giocare da numero 10 in tempi di 4-4-2, ruolo che negli anni novanta era vietato anche nei settori giovanili. Così spesso faceva l’esterno di sinistra, raramente la seconda punta, mai e poi mai la prima, il centravanti: con quel fisico, chi poteva azzardarlo in mezzo ai difensori centrali?
Il calcio è cambiato, l’attacco è diventato un concetto meno ordinario, meno statico, meno banale. Lui, Di Natale, si è convinto ad attaccare la profondità. Gli allenatori hanno cercato strade nuove per entrare in area. I gol hanno corroborato l’idea, Guidolin poi ha sgombrato la zona di altri attaccanti (Sanchez, nella stagione del terzo posto, lo sosteneva partendo però alcuni metri più indietro). Ma il Di Natale centravanti atipico aveva ormai 30 anni. Oggi ne ha 37, corre meno ma ha affinato una balistica dalla media distanza che è unica nel nostro Campionato. Nel mezzo tanti gol, con i quali Totò cura l’invecchiamento. Avesse trovato la Serie A con qualche anno d’anticipo, avesse capito prima dove mettersi, avesse avuto più chiare le sue qualità realizzative, ogggi potrebbe pensare anche a quel record di Nordhal che pare appartenere a un altro sport, tanto è inavvicinabile. Oppure ogni favola ha i suoi tempi, e quello che è mancato in gioventù serve adesso per animare questo splendido uomo, che ha preferito il mestiere ai rimpianti.
Marco Bucciantini