AS Roma via Getty Images
Di Livio, generazione di soldatini
Ricordo molto bene il “caso” di Marco Zoff, primogenito del grande Dino e oggi ottimo ingegnere. A Torino, dove frequentava le scuole medie veniva puntualmente convocato dai compagni della sua classe per giocare i tornei di istituto e lui, altrettanto regolarmente, il giorno prima si dava malato. Per Marco l’immensità professionale di suo padre era un peso talmente insostenibile al punto da costringere la famiglia Zoff a chiedere l’aiuto dello psicologo. Un evento estremo, forse, ma non poi così raro soprattutto se riferito alle professioni che comportano una massiccia dose di esposizione in quanto a immagine. Calcio e spettacolo, in particolare. Entrambe queste attività possiedono una cifra bizzarra in questo passaggio del testimone. E’ fatto più unico che raro poter trovare la figura del figlio che supera, a livello di immaginario collettivo, quella del padre. Gassman, Tognazzi, De Sica, De Filippo, Risi, Dorelli, Villa, Jannacci un lunghissimo elenco di mattatori i cui eredi, pur bravi, si sono fermati un gradino sotto. Idem nel calcio dove, forse, il solo Paolo Maldini tra i giocatori moderni ha fatto meglio di papà Cesare anche in quanto a popolarità. Ecco dunque il perché di quel “sospetto” a fronte di un esordio blasonato.
Ripresa del campionato, a Verona, sponda Chievo. Garcia chiama fuori Salah. Al suo posto scende in campo Lorenzo Di Livio. E’ al suo esordio. Compirà diciannove anni tra quattro giorni. E’ uno dei tanti che sperano nella serie “saremo famosi”, ma in quanto a pedegrèe suo padre ha già dato in abbondanza. Angelo è il suo nome. Soldatino il suo appellativo da battaglia. Quello che gli diede, subito, Giovanni Trapattoni paragonandolo al “capitano con l’elmetto” (padre di questa perifrasi fu Vladimiro Caminiti) Beppe Furino seppure giocasse in un ruolo differente. Una fra gli esterni di sinistra e talvolta anche ala che hanno saputo firmare in filigrana d’oro gli Anni Novanta del calcio italiano. Un insostituibile, Angelo Di Livio, dal giorno in cui arrivò da Padova per indossare la maglia della Juventus che non smise per sei stagioni filate. Un intoccabile addirittura specialmente per Marcello Lippi il quale lo trasformò nella “sua voce” in campo dove, per la Juve e con la Juve, conquistò tre scudetti, due supercoppe UEFA, una Champions, un Intercontinentale, una Coppa Italia. Ritrovò il Trap in nazionale (40 presenze in azzurro) nei disgraziati Mondiali nippocoreani dove, come souvenir pubblico, di lui rimane una foto storica mentre osserva tra il disgustato e l’inferocito il perfido arbitro Moreno mentre estrae il cartellino per cacciare Totti dal campo. E l’Italia la ritroverà ancora con Lippi che lo volle come suo fedele collaboratore.
Adesso, avanti un altro. Tocca a Lorenzo farsi sotto e, possibilmente, vestire la divisa di un soldatino contemporaneo che sappia almeno far tornare in mente agli innamorati del pallone la figura di un giocatore che, pur non essendo un fuoriclasse di quelli che ne nasce uno ogni tanti anni, al gioco del calcio non offrì soltanto muscoli e tecnica, ma tanto cuore, onestà e correttezza. Un Angelo, di nome e di fatto, che ad esempio Alessandro Del Piero non scorda mai di menzionare quando fruga tra i suoi ricordi bianconeri. Fu, infatti, proprio Di Livio a passare tra i piedi di Alex il pallone del suo primo gol segnato con la maglia della Juve. E il primo gol è come il primo amore, non si dimentica mai.