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Conte: 'Mazzone come un padre. Era tosto, in campo non faceva sconti a nessuno. Nel diluvio di Perugia...'
Eccola
Nel giorno dell’inizio del campionato se ne è andato un uomo che ha dedicato la sua vita al calcio. Gli applausi dei tifosi saranno il modo più giusto per ricordare Carlo Mazzone, un grande allenatore e uno straordinario personaggio che ha segnato il calcio italiano degli ultimi 50 anni e, nel mio piccolo, anche la mia carriera.
Fu Eugenio Fascetti, il mio primo tecnico nel Lecce, a farmi esordire in A a soli 16 anni, poi arrivò Mazzone a svezzarmi e plasmarmi come calciatore. Tre anni insieme ricchi di esperienze, insegnamenti, crescita umana e professionale. Ecco perché per me Mazzone non è stato solo un allenatore ma in qualche modo un padre, burbero, severo a volte, ma anche fornito di una straordinaria umanità. Questo omone grande e grosso, con il suo dialetto romanesco, che non le mandava mai a dire, incuteva in noi giovanissimi un certo timore reverenziale. Quel Lecce che con lui conquistò la promozione in A e poi due salvezze, aveva alcuni buonissimi giocatori di esperienza, ma poteva contare anche su quella che veniva definita la nidiata d’oro del Lecce: ragazzi cresciuti insieme dalle giovanili alla prima squadra. Ne facevo parte anche io, con Garzja, Petrachi, Moriero, Morello, Monaco… Eravamo ragazzi svegli, estroversi, nati nella nostra terra, cresciuti sui campi polverosi, abituati a cavarcela sempre. Mazzone lo sapeva e con noi alternava il bastone e la carota per spronarci e correggere gli errori. Sapeva motivare come pochi e quando giocavamo in casa non avevamo paura di nessuno. Ma se sbagliavi, erano guai.
Oggi tutti ricordano aneddoti, battute, frasi di Mazzone che hanno strappato un sorriso. Tutto vero. Ma vi assicuro che prima, durante e dopo la partita, con il mister non si scherzava. Era concentratissimo, serissimo, scrupoloso, attento a ogni minimo particolare, voleva da tutti la massima applicazione. Guai a distrarsi. Nello spogliatoio non si rideva, ci si preparava alla battaglia. Non gli piaceva ad esempio che si salutassero gli avversari a inizio gara. Mi ricordo una volta che un mio compagno, prima di una partita si abbracciò nel sottopassaggio con un avversario che era suo amico. Si sentì un urlo da lontano: «Ahooooo, ahooooo, dateve pure un bacetto…». Poi quando il mio compagno fu solo si avvicinò gli disse: «Ma che c… stai a fa? Quello c’ha la maglia avversaria, nun te scordà…». Era tosto, Mazzone, e in campo non faceva sconti a nessuno. La simpatia, era rimandata a metà settimana, se non eravamo in ritiro. Eh sì, perché in certe trasferte complicate ci portava in ritiro sin dal martedì. Altri tempi…
Il suo essere schietto, sanguigno, spesso in tuta e scarpini, ha magari condizionato la sua immagine. Come se fosse adatto solo ad imprese disperate da bassa classifica. Non era così. Io ho sempre detto che un cuoco fa la zuppa con gli ingredienti che ha. Mazzone è sempre stato un allenatore pratico. Per me il tecnico migliore è quello che centra gli obiettivi del club. E lui li centrava quasi sempre. Se hai squadre tecnicamente limitate è complicato dare spettacolo, devi adattarti. Ma Mazzone sapeva organizzarle benissimo. Poi quando ha avuto anche lui giocatori importanti e fuoriclasse, beh si è divertito e ha fatto divertire i suoi tifosi mostrando un ottimo calcio.
A Mazzone hanno voluto bene tutti, giocatori e tifosi, perché dava tutto se stesso per la squadra che allenava. Il coronamento della sua carriera è stato allenare la Roma, di cui era tifoso, ma qualsiasi maglia indossasse ne diventava l’alfiere e il primo baluardo dedicandosi anima e corpo all’obiettivo da centrare.
Durante la mia carriera ci siamo affrontati tante volte e l’ho sempre rivisto con enorme piacere anche se sapevo che prima della partita era meglio lasciarlo stare… C’era lui sulla panchina del Perugia nel 2000 nella sfida contro la ‘mia’ Juve di cui ero capitano, sospesa per un diluvio e poi ripresa, che ci costò lo scudetto vinto dalla Lazio. Molti di noi durante l’interruzione erano nel sottopassaggio, lui aspettava nel suo spogliatoio per non deconcentrarsi. Affrontò come sempre quella gara col sangue agli occhi, forse anche più del solito, perché qualcuno aveva dubitato dell’impegno suo e del Perugia. Erano cose che non solo lo ferivano ma lo mandavano in bestia. Era un uomo di una onestà, lealtà, professionalità uniche e ci teneva a ricordarlo che era sempre andato avanti da solo e a testa alta. Aveva ragione.
Caro Mister, grazie per quello che mi hai insegnato e per l’uomo e il tecnico che sei stato. Hai dato tanto al calcio e sei stato amato ed apprezzato da giocatori e tifosi, i tuoi ma anche quelli avversari: è questo alla fine lo scudetto più importante. E tu lo hai vinto.