Conte: 'Mai chiesto Drogba, ma ci farebbe comodo. In Italia solo Juve'
"Sogno la Champions, un delitto non provarci ma servirebbe un altro miracolo. Siamo tornati vincenti e antipatici, la Juve la ami o la odi. La squalifica mi ha reso più forte".
Conte: "Per ora solo la Juve, poi estero e azzurro. Drogba? Mai chiesto, ma servirebbe".
Nella pancia dello Stadium, là lungo il corridoio che conduce agli spogliatoi, dove né le telecamere né i comuni mortali possono buttare l’occhio neppure per sbaglio, sono appese le gigantografie in bianco-e-nero di tutti i capitani della Juventus. Alle pareti, ogni tanto, compaiono anche i graffiti di frasi famose pronunciate dai calciatori che la storia della società più scudettata d’Italia l’hanno scolpita negli annali, dal 1897 a oggi. Proprio di rimpetto allo stanzone della prima squadra c’è spazio per il dettato di Omar Sivori, il Cabezòn: «Qui bisogna lottare sempre. E quando sembra che tutto sia perduto, credici ancora. Alla Juventus non si molla mai». A forza di leggerla e rileggerla, Antonio Conte deve averla fatta diventare la colonna sonora della sua esistenza di allenatore-combattente. In campo e fuori..
Buon Natale, Conte. Era da tempo che ne sognava uno così...
«Un buon Natale, sì. Il bilancio del mio 2012 è più che positivo, sotto tutti i punti di vista. Abbiamo conquistato lo scudetto da imbattuti, siamo arrivati a disputare la finale di Coppa Italia, abbiamo vinto la Supercoppa, concludiamo l’anno in testa alla classifica, negli ottavi di Champions League e nei quarti di Coppa Italia... Insomma, più di così».
Togliamoci subito la grana più pelosa: Scommessopoli. Nemmeno questa vicenda le ha rovinato la festa?
«Assolutamente no. Il primo scudetto da tecnico mi ha regalato una gioia indescrivibile, un trionfo che ha superato in termini di emozioni anche il successo ottenuto in Champions League da giocatore. No, niente e nessuno possono sporcare questa felicità, anche se è stata una vicenda dolorosa che mi ha portato a riflettere e a lavorare su me stesso per costruire qualcosa di positivo. Ora posso tranquillamente affermare di essere più forte».
Raccontava Josephine Hart che chi ha subìto un danno è più pericoloso perché sa di poter sopravvivere...
«Io so che è stata dura».
E’ stato anche buon profeta. In quella famosa conferenza stampa “di pancia”, ispirazione per la satira di Maurizio Crozza, lei lanciò un avvertimento: quello che mi sta capitando adesso può capitare un giorno a chiunque. Ad esempio il Napoli...
«Non sono stato profeta, semmai sono stato obiettivo... C’è qualcosa che non va nel sistema. Vedere cosa accade al Napoli mi dispiace, non lo trovo giusto. Come sostiene il presidente Agnelli c’è bisogno di una riforma della giustizia sportiva. Io ai giocatori del Napoli darei una medaglia: da quanto si legge, loro ascoltano una proposta e la rifiutano categoricamente».
Quattro mesi interminabili, che però sono trascorsi (quasi) come se niente fosse...
«Lo ripeto, questa vicenda ha reso me e la società più forti. Poteva essere un disastro, invece è venuta fuori una compattezza straordinaria e una straordinaria unità di intenti. L’anormalità è diventata ordinaria amministrazione. Anche in questo caso è stato Agnelli a dettare la linea politica a indicare la rotta. Il presidente mi ha fatto sentire più protagonista, più partecipe. Da parte mia, con i giocatori non ho mai accennato a nulla che mi coinvolgesse, le mie grane le ho lasciate fuori dallo spogliatoio».
Lo scudetto dei... miracoli?
«A novembre e dicembre, quando eravamo alla pari con il Milan, a chi mi chiedeva se ce l’avremmo fatta, rispondevo sempre così: per i miracoli ci stiamo attrezzando. In effetti, è stato compiuto qualcosa di eccezionale grazie all’impegno e alla professionalità di tutti, dai dirigenti fino ai giardinieri di Vinovo».
Ma la Coppa Italia l’avete persa: perché?
«Se non avessimo vinto lo scudetto non sarebbe finita in quel modo. Il Napoli è sceso in campo con più rabbia di noi, anche se...».
Anche se?
«Se l’arbitro avesse fischiato il rigore netto su Marchisio...».
Ahi ahi... E la Supercoppa dei veleni?
«E’ stata una partita vinta meritatamente, dominata in maniera netta. Senza discussioni».
La Juventus è tornata antipatica...
«Prevedibile, in un certo senso. L’avevo anticipato: ridiventeremo antipatici nel momento in cui avremo riannodato il filo con il successo. Perché - vi domando - Lippi, Capello e Sacchi sono mai stati simpatici? In più metteteci la componente Juventus: o la ami o la odi. Stop».
Tutto è ri-cominciato con il gol-non-gol di Muntari. Cose le fa venire in mente quel ricordo? «La rete annullata a Matri».
Allegri le sta sull’anima...
«No, assolutamente. E’ un avversario e se c’è una guerra, lo dico in senso lato, diventa un nemico. La guerra esiste anche a livello mediatico, chi meglio la fa più destabilizza l’avversario».
Galliani... Ripronuncerebbe certe frasi?
«E quali?».
La storia del mafioso...
«Mai detto, mai detto. Di Galliani ho grande rispetto perché lo considero un ottimo dirigente calcistico, come lo fu Allodi».
Ora è Moratti che bacchetta...
«Un nemico pure lui nella guerra mediatica di prima... Tutto, però, deve svilupparsi nel rispetto e nell’educazione».
Agnelli sostiene che il vero fuoriclasse della Juventus sia lei, capace di fare giocare bene chiunque...
«Fossi ancora giocatore mi piacerebbe avere un allenatore come Conte. Mi aiuterebbe a vedere il calcio in maniera diversa».
Definisca del suo calcio.
«Organizzato».
Più Mou o più Guardiola?
«Loro stanno sul piedistallo, io lavoro per collocarmi allo stesso livello».
Quando conta in percentuale un allenatore?
«E’ variabile: il 10 %, il 20 % o di più... Dipende da cosa riesce a trasmettere ai giocatori delle sue idee».
Lei allenatore, perché? La sua è una vocazione? «Le racconto un aneddoto. Io giocavo nelle giovanili del Lecce ma per divertimento facevo l’allenatore della squadra di mio fratello che frequentava le elementari. Vado oltre?».
Come no, vada...
«Da giocatore sono stato un buon gregario, però non avrei mai potuto raggiungere le vette di un fuoriclasse, di uno Zidane, di un Baggio, di un Del Piero. Ho raccolto il massimo, cinque scudetti, una Champions League, sono diventato capitano della Juventus. Il top del mio top. Da allenatore no: ho sempre pensato di poter arrivare dove non mi sono neppure avvicinato da calciatore».
Vede? Un predestinato...
«Io il calcio lo studio dal punto di vista tecnico, tattico, psicologico, fisico, gestionale. Se sono a casa, scelgo un libro che mi aiuti nella mia professione. Adesso sto leggendo Open, l’autobiografia di André Agassi. Anche questo mi agevola per capire come può essere la testa di un campione. Sto pure studiando inglese e devo ammettere che fatico da bestia: però mi serve con gli stranieri per comunicare in maniera corretta, per essere persuasivo sotto il profilo motivazionale».
Stratega o psicologo?
«Un buon allenatore deve essere un po’ tutto e non può essere una cosa sola».
Dopo la Juventus?
«Dopo vedremo... Per me questo è il coronamento di un sogno. Non a caso, quando smisi di giocare dissi: il mio è un arrivederci, non un addio, perché sulla panchina della Juventus tornerò da allenatore. Mi auguro che sia un percorso lungo... Dopo sarà all’estero».
In Italia no?
«La Nazionale mi piacerebbe, però è uno step successivo».
Torniamo alla Juventus: è più forte di quella dell’anno scorso?
«Sì, lo è. perché un anno di lavoro alle spalle ci ha consentito di superare quattro mesi delicatissimi senza l’allenatore in panchina. Fosse successo la scorsa stagione sarei stato il primo a consigliare Agnelli di cambiare strada».
E’ più forte e potrebbe essere ancora più forte con Drogba...
«Non so come sia uscito il nome di Drogba. A me nessuno ne ha parlato né tantomeno io l’ho chiesto. Detto questo, si tratta di un fuoriclasse che ha alzato la Champions League ci farebbe comodo».
In casi come questi, prevale l’egoismo dell’allenatore o il buonsenso dell’uomo d’azienda?
«Bisogna arrivare a un compromesso. L’egoismo serve alla società per conquistare risultati di prestigio, ma c’è anche l’aspetto dei conti aziendali di cui si è partecipi. Io sono una via di mezzo...».
Cosa si aspetta dal mercato di gennaio?
«Sappiamo cosa ci serve e sappiamo dove intervenire. Sappiamo anche che 50 milioni non li abbiamo da spendere. Ma con la progettualità arriveremo a comprare campioni da 35-40 milioni».
Una frase per convincere il presidente Agnelli a investire su Drogba...
«Non una frase ma una serie di argomentazioni. Beh.... fino adesso è stato contento, potrebbe essere ancora più contento».
Già la Champions League. Il Celtic è un ossicino.
«Da azzannare con la medesima forza del Barcellona o del Real. La presunzione ci ammazzerebbe, dobbiamo volare bassi e stare concentrati».
L’obiettivo è vincere la Champions o entrare tra le prime quattro?
«Rispondo come per lo scudetto: per i miracoli ci stiamo attrezzando. A parte tutto, non possiamo non credere di andare avanti. Sarebbe un delitto. Siamo lì, lotteremo... Io il sogno lo coltivo».
Pirlo è da Pallone d’Oro?
«Lo è. Anche se è difficile non assegnarlo a Messi che ha segnato oltre novanta gol».
Del Piero è più lontano dei chilometri che separano Italia e Australia?
«La gestione di Alessandro non era facile e io me ne sono accorto. Sono stato aiutato dal fatto che i tifosi rispettavano lui e me in eguale misura. E’ stato il mio secondo scudetto. E lo ringrazio: quando la palla scottava, Del Piero c’è sempre stato».
Chi è il nuovo Del Piero?
«Lo zoccolo duro che si è creato, come ai tempi di Lippi. I Padoin, i Caceres, i Giaccherini, i Marrone non li cambio con nessuno, gente che sta fuori e non protesta, gioca e dà il massimo».
Conte, il suo Natale?
«Un Natale da Conte, in famiglia, tranquillo. Non ho mai avuto sfizi da vip. Sono uno così, semplice semplice».