Calciomercato.com

  • AFP/Getty Images
    Cile più squadra dell'Argentina, Messi triste e solo

    Cile più squadra dell'Argentina, Messi triste e solo

    • Matteo Quaglini
    Un’immagine di tristezza e solitudine narra la finale della coppa America del centenario. E’ quella di Lionel Messi che al termine di una drammatica sequenza di rigori si siede solitario e abbattuto, in panchina. Poco lontano dal capitano e dall’uomo simbolo della Seleccion argentina, ci sono i compagni anch’essi increduli per un finale che ancora una volta racconta solo malinconia. Tristezza argentina. Prigionia del sogno. 

    Nei minuti precedenti è successo l’impensabile, lui, il sinistro più forte del mondo ha tirato alto il primo rigore della serie dopo che Romero, il portiere che gioca in nazionale, ma non nei club, aveva parato il rigore di un guerriero sudamericano e Arauco, nato però a Santiago come Vidal.
    L’emozione forte e stringente, il desiderio ardente di vincere un titolo dopo 23 anni dall’ultimo trionfo argentino del 1993, aveva animato per centoventi minuti le gambe, la testa e il cuore dei giocatori argentini, del 'Tata' Gerardo Martino e del diez di Rosario. E’ probabile che proprio questa forte emozione ne abbia frenato la fluidità nel gioco e nelle scelte, che questo desiderio pendente – pur usare un aggettivo della letteratura argentina – abbia bloccato l’estro, il tocco, la tecnica di giocatori sublimi come Messi e Di Maria e il senso del gol di Higuain che per il troppo pensare al ventesimo del primo tempo ha sbagliato – mano a mano con Bravo, come direbbero loro – la rete dell’1-0 dopo un errore difensivo di Medel. 

    Con questa catena sempre più aggrovigliata di tensioni che aumentavano di minuto in minuto, gli argentini giocavano contro un avversario organizzato e sicuro, consapevole di quello che dovesse essere il gioco da mettere in campo per frenarla questa Seleccion. Era il Cile, campione in carica e allenato ancora una volta da un argentino, il frenetico Juan Antonio Pizzi.
    Il Cile giocava con un piano prestabilito e fondato sul grande possesso del pallone, ma con l’idea sempre fissa e ben chiara di aprire la manovra sulle fasce. L’uso del tempo e dello spazio marcava la finale. I cileni con la strategia di prolungare il tempo e cercare tutti gli spazi possibili del campo mettevano in atto l’idea profonda e complessa del "correre nell’attesa" e quella più prosaica ed efficace di togliere il pallone dai piedi dorati dei fuoriclasse Leo e Angel. 
    Gli argentini avevano invece fretta e non potevano giocare sull’attesa gli serviva l’attimo, quell’istante cioè in cui con una palla verticale si potessero mettere in azione le cavalcate del 'fideo' Di Maria, gli assoli ricamati di Messi e la definizione di Gonzalo Higuain. 

    Ma era lo spazio a mancare affinché questo triangolo di tecnica e ricamo si mettesse in moto. Mentre vedevamo la partita pian piano questa idea del tempo e del suo uso ci veniva sempre più in mente perché tra la prima occasione fallita da Higuain e la seconda, il tiro alto del Kun Aguero all’83 minuto era passata un’ora esatta. Il Cile stava portando l’Argentina verso il suo 'tempo'; tanto ansiosi erano gli argentini quanto invece concentrati sul presente giocavano e pensavano i cileni. 
    Il tempo e lo spazio dunque come elementi decisivi di una finale equilibrata, ricca di scontri agonistici in piena 'garra' sudamericana e marcata, nei primi 42 minuti del primo tempo, dalle espulsioni del centromediano cileno Marcelo Diaz e del terzino argentino Rojo che non spostavano né gli equilibri e tanto meno lo spazio a favore dell’una e dell’altra squadra. Tutto in equilibrio, quindi tutto in bilico. 

    Se è il tempo a governare una partita allora è l’attimo a deciderla e, nel calcio sudamericano fatto d’emozioni e gesti tecnici che s’incontrano, quest’attimo è sempre dietro l’angolo pronto a definire una finale così difficile e dura. Dopo le occasioni di Sanchez e Messi al novantesimo e, quelle di Vargas e Aguero nei supplementari, quell’attimo si è raccontato in tutta la sua essenza dopo 120 minuti duri e combattuti con i rigori. Sintesi finale e crudele del tempo. 

    In uno spazio circoscritto come l’area di rigore, con una distanza definita e in duello tecnico emozionate e decisivo gli argentini carichi del loro sogno di 'revencha' hanno tirato con la speranza e la voglia di vincere contro Bravo il portiere e capitano della Roja, che poco prima aveva in cerchio arringato i compagni. Il Cile si è dimostrato anche in questo più squadra dell’Argentina. E ha vinto con merito per la seconda volta consecutiva questa coppa America del centenario. 

    Il calcio sudamericano è tempo e spazio, è un tango argentino, o un libro errante di Sepúlveda e in questo suo svolgersi manifestandosi per com’è racconta storie. Ieri sera ha raccontato quella del Cile della pazienza e della precisione confermatosi campione ai rigori, senza mai battere l’Argentina nelle due partite giocate in questa coppa. Ma ha anche raccontato la storia malinconica della grande Argentina non ancora rotonda e del suo campione più grande triste e solo, sublime e conscio di aver perduto dopo l’errore di Biglia al quarto rigore, un fuoriclasse a cui manca la vittoria argentina, ma non per questo incompiuto. 
     
     

    Altre Notizie