Carbone a CM: 'Via dall'Inter per Hodgson. La schiena rotta di mamma, l'amicizia con Mia Martini e lo shock dei primi giorni a Napoli'
Se la ricorda la prima volta che ha toccato un pallone?
“A dire il vero non ho ricordi di me senza pallone. Lo portavo ovunque e anche a scuola mi nascondevo tra i banchi per accartocciare fogli di carta e costruire una palla da prendere a calci tornando a casa. Ogni tanto mi beccavano e avvisavano mia mamma”.
Una mamma severa?
“Una mamma incredibile, una mamma a cui la nostra famiglia deve tutto. A quattro anni ho perso il mio papà, di lui non ho ricordi se non di alcune cose che mi raccontano i miei fratelli e le mie sorelle. Siamo in sei e io sono il più piccolo. Mamma partiva alle sei di mattina da Bagnara Calabra con una cesta in testa e arrivava a Scilla, dove andava a vendere l’olio. Rientrata a casa, andava a lavorare a scuola come bidella, fino alle 19. Spesso tornavamo insieme, io avevo 5-6 anni e rincasavo col pallone sotto al braccio, dopo aver giocato con gli amici tutto il giorno. Altri tempi”.
Cos’altro ricorda di quell’infanzia?
“I piedi insanguinati. Spesso giocavamo in strada, scalzi, e capitava di calciare colpendo l’asfalto o una pietra. Quella è stata per me una grande palestra, credo di avere appreso in quel modo la tecnica che poi mi sono portato dietro. Le ore a calciare contro un muro, le partite in piazzetta con gli amici, il salto del muretto palla al piede, le porte inventate con le serrande dei box. Tutta tecnica e coordinazione, dovevi anche imparare a cadere in un certo modo per non farti male”.
Poi il primo provino.
“Giocavo nella squadra di Bagnara ma la Scillese mi chiese in prestito per portarmi a Torino, dove avremmo giocato un torneo con Juventus e Toro. Andò bene, mi premiarono come capocannoniere e miglior calciatore del torneo. Mi volevano entrambe, ma i bianconeri avevano terminato i posti in foresteria e mi avrebbero accolto l’anno successivo, mentre i granata mi offrirono la possibilità di iniziare subito, appoggiandomi a casa di mia sorella, che nel frattempo si era trasferita a Settimo Torinese”.
Cosa le passò per la testa?
“Avevo dodici anni quando preparai la prima valigia che mi avrebbe portato lontano da casa. Ma non ero spaventato, andavo incontro al mio sogno. Ho sempre vissuto per il calcio e quella era la mia opportunità”.
Con la maglia del Torino arriva anche l’esordio.
“Contro il Pisa, presi anche un palo. Poi mi hanno mandato in giro in prestito. C’era Moggi come direttore sportivo e ogni anno mi prometteva che mi avrebbe tenuto, ma la verità è che ho rimesso piede a Torino solo dopo che lui se n’è andato”.
Come se l’è guadagnato il ritorno?
“Alcune cose sono scritte. Ero in prestito all’Ascoli e mi procurai un infortunio delicato, uno strappo di sei centimetri al flessore. Così il Torino mi chiese di tornare a curarmi presso le loro strutture. Svolsi tutta la rieducazione allenandomi su un campetto vicino a quello della prima squadra. C’era Mondonico, cui forse dovetti fare tenerezza perché continuava a vedermi da solo. Venne e mi disse «Carboncino, vieni a fare una partitella con noi». Lui mi chiamava così, Carboncino. Entrai in quel campo e meravigliai anche me stesso, segnando in tutti i modi, anche in sforbiciata. Decisero di tenermi, non mi mandarono più in prestito“.
Ma durò solo un anno.
“Si, ci fu un ribaltone societario e al Torino arrivò Calleri. Avevano bisogno di vendere e io ero tra i pezzi pregiati di quella squadra. Fu una mazzata, avevo costruito nella mia testa un film bellissimo, sognavo di chiudere la mia carriera in granata, mi sentivo un figlio del Filadelfia“.
Iniziò l’esperienza al Napoli.
“E non iniziò benissimo. Avevo firmato e decisi di sostare una settimana a Capri con mia moglie, avrei successivamente raggiunto la Calabria per proseguire le ferie e poi sarei partito per il ritiro estivo. Mi contattò la società per chiedermi di approfittarne, dal momento che mi trovavo in loco era opportuno raggiungere Napoli per scegliere l’appartamento che avrebbe ospitato me e mia moglie nel corso della permanenza campana. Risposi che mi andava bene. Il traghetto attraccò al molo e giù c’era già un autista del Napoli pronto ad aspettarci, il grande Armandino. La lista degli appartamenti da visitare era lunga ma ci fermammo al secondo e non perché ce ne innamorammo, al contrario”.
E allora perché?
“Perché capimmo immediatamente che non era una casa adatta a noi e andammo via, ma da lontano osservavo l’auto di Armandino e c’era qualcosa di strano, più mi avvicinavo, più il sentore negativo diveniva certezza. I ladri avevano forzato e aperto il baule, portandosi via i miei bagagli con dentro oro, orologi, documenti, soldi. Tutto. Fu il benvenuto”.
Cosa fece?
“Disperato chiamai il mio procuratore, in lacrime. Gli dissi, ma dove c… mi hai mandato? Ero arrabbiatissimo, mai avrei pensato che proprio in quella città avrei invece vissuto probabilmente le esperienze più belle della mia vita. Napoli è fantastica e quando ti cali nella sua realtà capisci che nessuna città al mondo può darti le stesse cose. Napoli si autogestisce, si crea le proprie regole, il proprio codice della strada. E la cosa incredibile è che tutti si riconoscono in quei codici. Se qualcuno, in un vialetto, arrivava contro mano in auto, quello che in teoria avrebbe avuto ragione non si arrabbiava, ma accostava verso il marciapiede e faceva spazio”.
Casi incredibili della vita, a Napoli conosce anche Mia Martini, di Bagnara come lei.
“In una trasmissione locale, eravamo entrambi ospiti. Quando le dissi di essere di Bagnara, le se illuminarono gli occhi. Era rimasta legatissima alle proprie origini. Mi dedicò una fantastica canzone di Roberto Murolo, ‘Cu ‘mme’. La notizia della sua scomparsa mi scioccò, la vita si portava via una delle donne più dolci e più profonde che avessi mai conosciuto. Immensa”.
Il suo ex agente, Carlo Pallavicino, ha ricordato che in quel periodo lo ha liquidato per riavere un’automobile rubata. Ride prima di iniziare a parlare - “Ho letto, inizio col dire che cambiare procuratore fu un errore e per questo motivo tornai immediatamente sui miei passi. Due agenti come Pallavicino e Branchini non si cambiano per nessuno al mondo, ma ero giovane e mi feci prendere dal rapporto di grande amicizia instaurato con Cannavaro, Taglialatela e Tarantino. Nessun agente ritrovò la mia auto. Ricordo ancora la sera in cui tutto avvenne, chiamai Gigi D’Alessio, ero disperato. Lui venne subito e ci mettemmo a cercare questa macchina in giro per la città ma niente da fare”.
Ma cosa c’entra Gigi D’Alessio?
“Niente, però era un mio amico e quando sei in difficoltà chiami sempre qualcuno che ti è vicino. L’ho conosciuto una volta in una trasmissione e da allora andavo sempre a trovarlo negli studi di registrazione, ogni tanto mi fermavo a cantare con lui. A Napoli mi trovavo bene e i tifosi mi amavano tantissimo, non avrei voluto lasciare quella città ma ancora una volta, come accaduto già a Torino, la società aveva necessità di vendere. Fu così che a Gigi venne in mente di scrivere una canzone da cantare insieme. Un messaggio diretto alla società, un tentativo per fargli cambiare idea”.
Il compagno più forte che aveva in quel Napoli?
“Fabio Cannavaro. Me ne ero già reso conto un anno prima quando giocavo con la maglia del Torino. In quel periodo vivevo un momento di enorme grazia, mi riusciva veramente tutto, ero in grande fiducia e per i difensori non era facile affrontarmi. Ma quando giocammo contro il Napoli c’era questo tizio che mi ritrovavo sempre addosso, lo saltavo e me lo ritrovavo davanti. Una molla, pensavi ma chi c… è questo? Era Cannavaro. E l'anno dopo al Napoli, da compagno di squadra, ebbi la conferma di quanto forte fosse”.
Suo compagno anche nell'Under 21 campione d’Europa.
“Vieri, Carbone, Muzzi, il tridente offensivo. In panchina Inzaghi, Del Vecchio. In quella squadra c’erano Toldo, Cannavaro, Panucci, Colonnese. Eravamo fortissimi”.
L’anno dopo lasciaste Napoli sia lei che Cannavaro.
“Si, lui per andare al Parma e io per andare all’Inter”.
Cos’ha rappresentato per lei l’Inter?
“L’approdo nella squadra dei miei sogni, il club per cui avevo da sempre fatto il tifo. Da bambino a Bagnara, quando giocavo in strada, mi immedesimavo nei miei idoli nerazzurri e quando ho vestito davvero quella maglia mi è sembrato di vivere un sogno”.
L’Inter di Roy Hodgson.
“Una persona per bene, un uomo con le sue idee. Ma qualche danno lo ha fatto. Non si può pensare che Roberto Carlos non sappia difendere. Per quanto riguarda me, aveva scelto di schierarmi da esterno sinistro di centrocampo nel suo 4-4-2, significava andare a chiudere la diagonale a Bergomi. Un lavoro sfiancante e quando c’era da decidere con la giocata di qualità negli ultimi 20 metri non avevo la giusta lucidità. Per questo motivo ho segnato pochi gol, Hodgson mi chiedeva quantità”.
Fu per questo che decise di andare via? “Un errore gravissimo, dettato dalla giovane età. Avrei potuto giocare con Ronaldo e con altri campioni e invece preso da un sentimento di frustrazione andai via. Ricordo sempre che Bergomi mi diceva «Non devi muoverti da qui, se resti diventerai più forte di Donadoni». Gli rispondevo, Capitano, con tutto il rispetto, non posso fare la diagonale a te e poi passare la palla a Ince, che è fortissimo, ma che ha piedi di marmo». Ovviamente erano solo battute, ma il concetto era quello. Sbagliai, conservo ancora grandi ricordi”.
Chi la impressionava? “In quel periodo all’Inter il mio compagno di stanza era Javier Zanetti. Inumano. Dedizione, professionalità, forza fisica. Ogni tanto lo cercavamo, ma dov’è Zanetti? È in camera che dorme. Ma dov’è Zanetti? È in camera che riposa. Si allenava e recuperava, sempre così, da quando lo conosco. Pazzesco”.
Che idea si è fatto dell’Inter di Conte?
“Conte ha bruciato e brucerà ancora le tappe, portando la sua squadra a lottare per obiettivi importanti. Nei prossimi dieci anni, l’Inter sarà una squadra ai vertici in Europa, al pari con le top di adesso”.
Cosa ricorda del trasferimento in Inghilterra?
“L'inizio non fu dei più semplici, c'era il problema della lingua ed escogitavo ogni maniera possibile affinché allenatore e compagni potessero capirmi. Mi esprimevo a gesti. Anche mia moglie era disorientata, senza di me non usciva. Andavamo a mangiare sempre in un ristorante italiano che si chiamava ‘Nonna’s’. Ma ricordo con grande affetto anche l'amicizia con Di Canio. Ero in palestra, mi si avvicina David Pleat, mio allenatore ai tempi, e mi chiede «Ma Di Canio?». Ma Di Canio cosa, gli rispondo. «Vorrei sapere che tipo è prima di prenderlo». Ancora non l'avete preso? Ma chi state aspettando? Vivemmo quei mesi sempre insieme, formavamo una bella coppia”.
In cosa ti ha migliorato quell’esperienza?
“In tante cose. Quando provavo qualche furbata, i miei stessi tifosi fischiavano. Ho messo da parte quel velo di indolenza dei fantasisti e ho imparato a correre fino al fischio finale. E poi ho imparato benissimo la lingua, un aspetto fondamentale”.
Eriksen sta incontrando qualche difficoltà tattica, come ai tempi accadde a lei.
“Forse la squadra di Conte era stata costruita con altri codici e la qualità del danese rischia di comprometterne l’equilibrio. Eriksen può mandare in tilt un sistema, o cambi modulo o prendi tempo e lavori sul calciatore. Diventerà una mezzala che si trasforma in trequartista in fase di possesso, ma serve tempo perché Conte è un perfezionista”.
Adesso come si diverte Benito Carbone?
“Non è cambiato niente, mi diverto solo quando posso vivere gran parte della mia giornata su un campo da calcio. Ho avuto delle ottime esperienze con Zenga, da secondo, ma adesso sono pronto per andare avanti da solo. È tempo di mostrare quelle qualità che so di avere, partendo da un progetto serio e ambizioso. Il mio obiettivo è quello di tornare ad allenare e lo farò, al di là del giro corto o lungo che dovrò compiere”.
Si parte dal modulo o dai giocatori?
“Dai giocatori. Si parte dai giocatori e si trova il sistema giusto per farli rendere al meglio. Altrimenti mi capita un Carbone e lo metto esterno di centrocampo”.