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    Bucciantini: Mandela, calcio e libertà

    Bucciantini: Mandela, calcio e libertà

    Un giorno pieno di sole presi un traghetto: l’isola era a vista. Mezz’ora da Città del Capo. Seguivo i Campionati del mondo sudafricani per l’Unità. In mezzo al mare c’era Robben Island, l’isola delle foche. In mezzo all’isola c’era una stanza due passi di lato, due passi in avanti. Tutta lì. Per diciotto anni ospitò l’inquilino e carcerato Nelson Mandela. C’entra anche il calcio, ma viene dopo. 

    Dopo aver considerato il mare come la fine del mondo, il luogo dove la tua terra semplicemente finisce. E la città come un sogno, anche se nelle giornate limpide si vede così nettamente da distinguere i quartieri, il lavoro. Bisogna conoscere nel cuore la distanza di diciotto, cento, mille anni di solitudine, e calcolarla con il rumore del vento. E con l’agitarsi del mare ricordare le stagioni, tenere a mente i giorni che passano e gli odori vissuti e conosciuti, e con essi rivivere una donna, la tua donna. Lì dentro – due passi avanti, due di lato – bisogna per forza avere una visione, e costruirla con la stessa costanza con la quale il potere t'impone di spaccare sassi, per ricavare sassi. 

    Non esiste un confine del mondo più ottuso di una parete: il luogo senza profondità dove lo sguardo finisce, torna indietro, diventa cieco d’abitudine. Bisogna essere forti per ricordare, e fantasiosi per vedere un gioco al di là del muro e del mare. E quell’immagine custodirla, crescerla nell’unico spazio a disposizione: il corridoio, che è l’affaccio comune a tutti i prigionieri. Lì germogliò il calcio in Sudafrica. E l’11 febbraio di 25 anni fa Nelson Mandela uscì dal carcere (nel frattempo diverso, dopo Robben Island fu a Pollsmoor e infine a Victor Vester): per questo ne scrivo adesso, su questo spazio. 

    La palla erano due magliette annodate, i giocatori erano i carcerati nascosti a 12 chilometri a ovest di Città del Capo. Robben Island: per camminarla tutta basta unora ma è Patrimonio dell'umanità e le guide consentono solo il giro in autobus. Loro sono gli ex prigionieri di questo scherzo di terra: qui si scontavano le pene politiche, la quarta stanza a sinistra della sezione B è stata per 18 anni (sui 27 complessivi di prigionia) la cella di Nelson Mandela, matricola 466/64 (il 466° detenuto dell'anno 1964): due passi di lato e due passi in avanti – ho ripetuto questa misura in molte pagine di appunti, e la ritrovo in molte righe del pezzo che scrissi allora per il giornale: una misura ossessiva, che mi perseguitava anche da spettatore – e poi tre coperte di lana grezza da usare per combinare un letto e un cuscino, un piccolo tavolo tondo, un recipiente, una vita. 

    Gli ex prigionieri raccontano questa storia alterando la voce, dandole un senso epico. La mattina del primo sabato del dicembre del 1967, quattro anni dopo la sfida nel corridoio, il pallone è di cuoio robusto. Per l’inversione delle stagioni, è estate e fa caldo, l’isola è battuta e rinfrescata dal vento dell’oceano. Il campo è disboscato, di terra secca. Le porte sono fatte coi legni che il mare ha rimorchiato a riva, le reti sono i resti di una pesca che una mareggiata ha trascinato lontano dal porto di Cape Town. 

    L'isola dei prigionieri è silenziosa, solitamente l’unico rumore è quello del lavoro forzato, la punta di ferro che colpisce la roccia. Poi la matricola 466/64 sente l’arbitrio fischiare l'inizio di Rangers-Bucks, la prima partita del primo campionato di Robben Island. Ci sono registri ingialliti ma conservati come reliquie. La grafia è così impostata e ampollosa che ancora si legge. È annotato tutto – squadre, classifiche, referti arbitrali, regole ufficiali della Fifa, ricorsi per le decisioni disciplinari – e le righe, le colonne, le caselle sono riempite con uno scrupolo maniacale: era nata la “Makana Football Association” che nel giro di 20 anni fu rimpolpata di 27 squadre e si estese a tre campionati, A, B, C. Makana fu un condottiero zulu ucciso mentre cercò di evadere dall'isola-carcere, un secolo avanti. 

    La Lega isolana aveva i suoi organi elettivi e di controllo, votati dai carcerati: quel voto fu la prima espressione politica che i neri del Sudafrica poterono esercitare. Quel voto fu il loro riconoscimento democratico. Lasciare precisa testimonianza di ciò che accade è usanza dei detenuti, che fanno tacche su i muri, e datano gli scritti ai cari. Applicarla al football era come tenere gli stati generali. Chuck Korr, professore dell'Università del Missouri (Usa), spiegò i contorni della Makana F.A nel suo libro, “More than just a game”: «Il calcio dava loro piacere e speranza. Organizzare la Lega li metteva alla prova ogni giorno: saper gestire il football in quelle condizioni estreme voleva dire essere in grado di poter guidare, un giorno il Paese. Scrivere un corretto referto arbitrale era l’esercizio per scrivere, una volta liberi, una buona legge». 

    Il più talentuoso dei Rangers era un giovanotto carismatico con la faccia paffuta, Jacob Zuma, che ancora oggi è presidente della Repubblica. E il più zelante nella compilazione dei referti, Dikgang Moseneke, fu poi presidente della Corte di giustizia. Fra i fondatori della Makana ci fu anche Danny Jordan, che fu il capo dell'organizzazione dei Mondiali in corso, ed era il postino del gruppo: riceveva sostegno e ordini dai capi dell'African National Congress esiliati in Zambia. In un certo senso, il calcio a Robben Island fu la “nascita di una nazione”, che attese tempi migliori per diventare Stato: permise a un gruppo di giovani politici umiliati dal segregazionismo di sopravvivere e praticare la “politica”. Misero da parte le divisioni che allignavano fra i neri d'Africa e si consorziarono, dapprima per resistere: per tre anni ogni settimana a turno un detenuto chiese l'autorizzazione a giocare a calcio andando incontro ogni volta alla stessa punizione: il digiuno per due giorni. Fino a quando il permesso - 30 minuti ogni sabato - fu accordato: provati dai lavori, si stancheranno in fretta di giocare, pensarono le guardie, che invece assistettero a 24 campionati regolari. Per organizzarli, per avere divise e scarpe da calzare, i detenuti limitarono le ribellioni. Per dimostrarsi classe dirigente pronta a raccogliere il futuro, lo diventarono anzitutto della Makana FA. 

    La matricola 466/64 non poté mai scendere in campo, né incontrare la moglie, o le figlie. Non accompagnò la madre al camposanto, e nemmeno il figlio morto in un incidente stradale. È la sorte dei prigionieri del ramo di massima sicurezza. La sveglia di Mandela suonava alle 5 e 30, il piccone lo aspettava all'ingresso della cava, e sarebbe stato suo compagno per 8 ore. Eppure studiò, si laureò in Legge con l’Università di Londra, perché ai prigionieri era concessa l’iscrizione ai corsi di laurea per corrispondenza. Anche questa possibilità consentì la formidabile crescita dei “quadri” della resistenza democratica al regime. A metà del soggiorno, le asprezze furono calmierate, a Mandela fu permesso coltivare un suo orto. Ma la stanza fu sempre quella, la cella non guardava il campo e puntava il nord, così che gli fosse difficile anche vedere il passaggio del sole dalla finestrella sbarrata. Sentiva gli amici esultare, ed era un gol. 

    Marco Bucciantini

     


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