Bucciantini: Mancini e Inzaghi: dov'è il gioco?
Avere grandi attaccanti semplifica le partite ed è quello che manca a mote squadre ambiziose, spesso frustrate da questa lacuna. Una considerazione che deve essere un punto di partenza, e non di arrivo: altrimenti diventa un alibi. E molto si può costruire (o sostituire) con buoni giochi d’attacco, con attaccanti o centrocampisti che corrono verso la porta e che lavorano bene insieme: qui serve il manico, serve il lavoro settimanale, la visione e la forza di un tecnico, le qualità non per forza esclusivamente realizzative dei giocatori. L’Inter aiuta a capire: Icardi i gol li fa, ma il gioco d’attacco dell’Inter non funziona, non si amalgama, non si velocizza. Tocca a Mancini muovere bene i pezzi in capo. A volte rinunciare a qualcosa di certo ma individualistico può essere una soluzione per ricostruire qualcosa d’insieme. I grandi attaccanti sono importanti. Il gioco d’attacco è però fondamentale: può sostituire l’assenza di giocatori decisivi, almeno in alcune situazioni.
Ci sono squadre dove gli attaccanti lavorano fra loro: lo scrivemmo dopo 270 minuti di torneo: il Palermo ha due giocatori che si muovono benissimo, da soli scombinano difese schierate, si mettono bene in campo largo per far sfogare i contrattacchi ma lavorano alla grande anche nello stretto. A volte, basta l’inserimento di un solo centrocampista (o di un esterno) e il Palermo riesce così a entrare in area con fluidità. Merito della sensibilità di Vazquez e della tecnica e della visione di gioco di Dybala. Merito anche dell’allenatore che ha assemblato questa coppia lo scorso anno, quando Vazquez era praticamente fuori rosa per scarso rendimento e Dybala un giovanotto di belle speranze e pochi gol. E ha riproposto il tutto in Serie A, nonostante i due sommassero poco o niente nel curriculum, riferito al torneo maggiore. E nonostante ci fosse Belotti in panchina, un giovane che potrebbe meritare molti più minuti, ma chi si azzarda a disfare un gioco d’attacco così pulito ed efficace?
Anche l’Empoli pensa e pratica una bella manovra da centrocampo in su (oltreché giovare di una ferrea disposizione a tutto campo, con ottima tenuta difensiva), ma siccome le qualità individuali contano sempre, poi non raccoglie i gol che potenzialmente costruisce, perché Tavano e Maccarone sono logori, e gli altri sono acerbi, o incompleti: Sarri li muove bene, loro assecondano, la squadra arremba che è un piacere, ma tutto rimane potenziale. Però il gioco d’attacco c’è e impegna gli avversari, li costringe a rincorrere, ad adattarsi, con guadagno generale che va al di là dei gol mancati perché molte avversarie dell’Empoli finiscono per giocare una partita snaturata, difficile. Altre due squadre che combinano molto bene gli attaccanti sono la Sampdoria e il Sassuolo: non hanno segnato molto, sempre perché tutto va poi ricondotto alle qualità intrinseche dei protagonisti, ma in ogni loro partita c’è sempre un’intenzione e una ricerca continua fra gli avanti. Gli uni giocano per gli altri. Questo incessante movimento, questa occupazione del fronte (senza palla, e con i passaggi) permette di poter usare il tridente (purissimo, fatto di attaccanti veri) perché comunque sottrae uomini alle avversarie, preoccupate di chiudere molte zone del campo. La difesa della Samp, per esempio, comincia proprio dalla saturazione degli spazi d’attacco: lì viene filtrata anzitutto la pericolosità altrui. È una cosa molto ben visibile nelle partite della Sampdoria: è difficile attaccarla con molti uomini perché la mobilità degli attaccanti e la forza fisica dei centrocampisti (terzini compresi) sfibra di lavoro gli avversari.
Il gioco d’attacco è invece assente nel Milan e nell’Inter, un difetto evidente che toglie impatto alle due squadre, affanna anche il resto dei reparti e divarica la classifica in modo raggelante: 20 punti di distacco dal vertice nel solo girone d’andata! Ed è un problema anche per la Roma, con la sua croce: l’unico giocatore che le dà forza d’urto non porta in dote i gol (Gervinho). Gli altri, vanno a periodi, quasi mai concomitanti. Ed è un tarlo della Fiorentina – ma è un problema più specifico e limitato all’intelaiatura di Gomez e Cuadrado (fra loro, nella squadra) perché la squadra di Montella ha comunque una diffusione del lavoro d’attacco e un’idea di coralità offensiva ormai condivisa e tenace.
I giudizi mutano troppo in fretta per essere tutti credibili. Chi a Natale esaltava il lavoro di Inzaghi oggi lo punisce di giudizi cinici. Sono passate tre settimane. Ci fu un grande errore di valutazione a rimorchio del pareggio all’Olimpico: dimostrò una buona tenuta, una buona compattezza, ma fu anche esemplare nell’indicare la balbuzie del gioco, la difficoltà nell’occupare in velocità la metà campo avversaria, la distanza fra gli attaccanti, ognuno perso nel suo binario e Menez, nel gioco in solitaria, per forza brilla più degli altri: è il suo modo di vivere il campo. Eppure, fu un trionfo di critica, abbagliata dal risultato (anche se la Roma d’inverno fatica a vincere contro chiunque). Così come adesso è un’esagerata caccia al colpevole: quando si leggono strali verso la società, certo, c’è del vero, ma il pacchetto di classe nel Milan non è così scarso: Cerci fu uno dei migliori 5 giocatori dello scorso Campionato. El Shaarawy è da “sistemare”, ma non può aver dilapidato tutto, Menez è difficile da amalgamare ma qualcosa sta dando, Pazzini un po’ di mestiere lo possiede (ma sembra sempre fermarsi sulla porta del protagonismo) Bonaventura è un giocatore di qualità, ma andrebbe inquadrato in un ruolo più definitivo. Montolivo e De Jong hanno blasone internazionale (anche se non sono bravi ad accorciare il campo in avanti) . Ci sono dunque delle lacune, soprattutto agonistiche, ma gli elementi per combinare qualcosa di meglio ci sono, ci sono gli attaccanti esterni (la cui presenza è fondamentale, e che altre squadre non hanno), c’è profondità, c’è qualità. Manca certamente un po’ di aggressività ma sono anche doti che si possono trovare “coralmente”. Chi scrive difese e ammirò l’idea iniziale di Inzaghi, di allargare l’attacco, di cercare vie moderne al gioco: quell’idea è rimasta sulla carta, è schierata bellamente (e banalmente) in campo, ma sembra non essere “lavorata”: solo pensata su un foglio. La squadra continua a faticare nell’andare vicino agli attaccanti, la poca salute degli esterni titolari ha impoverito troppo il Milan, che non può dipendere da Abbiati e De Sciglio. Forse mancano interni di centrocampo capaci di “dominare” la partita, di sicuro non ci sono movimenti fra i finalizzatori. Il tecnico è l’elemento fragile del Milan, ma è anche una scelta – forte, condivisa – e ora va difesa, anche contro senso, anche con pazienza che altre volte non sarebbe stata saggia, perché si presume che la rinuncia ad Allegri e poi Seedorf avesse in se una valutazione profonda, seria, di lunga scadenza. Altrimenti, quello è stato il grande errore societario, prima ancora dei giocatori acquistati o mancati.
L’Inter è deludente ma Mancini – rispetto a Mazzarri – almeno è tormentato nel cercare soluzioni: cambia schemi, interpreti, cerca qualcosa. L’altro si era indefessamente bloccato sull’abitudine al suo 3-5-2. È chiaro che tentare la regia con Medel e Guarin è come urlare al mondo l’assenza di una mediana convincente, rapida nel distribuire gioco, nel costruirlo insieme. È chiaro che costringere Hernanes all’esterno – e dire che ci può giocare – è come mentire a se stessi, sapendo di mentire. Però i movimenti di mercato hanno assecondato le nuove intenzioni, mentre altrove deve risolvere il tecnico, arrangiando, insistendo su intuizioni (ma non Hernanes all’ala…e nemmeno Guarin in regia…). Lavorando su quell’argilla fresca che è Kovacic, ancora troppo giovane per avere abitudini irrimediabili. E soprattutto, deve far lavorare gli attaccanti insieme: fra di loro, con i portatori di palla. Deve farli muovere di più, sfinirli. L’Inter non riesce ad appoggiarsi a loro: quanto manca il miglior Palacio, capace di governare qualsiasi rilancio, d’incontrare qualsiasi disimpegno e congelarlo in attacco, in attesa di scambiare con i compagni. Icardi segna ma ha ridotto a questo la sua presenza. Anche lui è materia giovane, e un tecnico ambizioso come Mancini deve poterla agghindare di nuove virtù: il tecnico si è abituato bene, ai campioni fatti, anche di personalità e di mentalità vincente, dunque facili da mettere in campo. Deve ritrovare quell’idea che lo pervadeva ai tempi della Lazio, spesso sprecona, ma quasi sempre ariosa, bella, fantasiosa, veloce. È un banco di prova, servirà voglia, pazienza, ancora pazienza, e fortuna. E soldi, certo. Ma - come per l’altra sponda di Milano – adesso si misura lo spessore dei tecnici, qualcosa da cavare c’è, 26 punti in 19 giornate, meno del 30% di vittorie sono numeri troppo piccoli, anche per due gruppi inferiori alle ambizioni massime e naturali di questi ambienti.
Certo, ci sono maglie che addosso non permettono le mezze recite: chiedono tutto. Ma anche in questo può rimediare una condivisa personalità di squadra, che un tecnico può diffondere come è riuscito a fare Montella a Firenze, un tecnico che è pieno di giocatori d’attacco (una decina) difficili da incastrare, e che ha un centravanti impossibile da presentare. E ha Cuadrado che gioca il suo calcio, non quello degli altri. E Gomez è ormai un alibi che va tolto dal campo, per far respirare l’attacco: i due maggiori giocatori per notorietà non hanno “confezionato” nemmeno un gol insieme, in generale non c’è un viola fra i marcatori (ci sarà, e si chiamerà Babacar), non c’è un viola fra gli uomini assist. Ma c’è la Fiorentina al quinto posto perché in questo caso il gioco d’attacco è il pensiero originario di tutti, è il pensiero del tecnico. Che lotterà per il terzo posto solo se riuscirà a trasformare quella mentalità (che è già un passo avanti alle milanesi) in trame e lavoro d’insieme degli attaccanti. In attesa di Rossi, Montella deve costruire un’azione fra Babacar e Cuadrado. Tolto il pareggio (0-0) con la Juventus, non è un caso che i viola abbiano subito 4 delle loro 5 sconfitte con le squadre immediatamente davanti in classifica (Roma, Napoli, Lazio, Sampdoria), tra l’altro segnando un solo gol e nato da un calcio d’angolo (Savic, contro la Samp). Perché quando l’avversario è forte, e chiude bene gli spazi, e ti assorbe fisicamente, non è facile abbordare l’area con le trame corali, e con molti giocatori. Serve qualcosa lassù, che sia qualità o soluzione individuale, oppure specifici movimenti d’attacco, fraseggi fra i giocatori di ruolo, insomma, uno squisito lavoro di reparto.
Ci sono squadre dove gli attaccanti lavorano fra loro: lo scrivemmo dopo 270 minuti di torneo: il Palermo ha due giocatori che si muovono benissimo, da soli scombinano difese schierate, si mettono bene in campo largo per far sfogare i contrattacchi ma lavorano alla grande anche nello stretto. A volte, basta l’inserimento di un solo centrocampista (o di un esterno) e il Palermo riesce così a entrare in area con fluidità. Merito della sensibilità di Vazquez e della tecnica e della visione di gioco di Dybala. Merito anche dell’allenatore che ha assemblato questa coppia lo scorso anno, quando Vazquez era praticamente fuori rosa per scarso rendimento e Dybala un giovanotto di belle speranze e pochi gol. E ha riproposto il tutto in Serie A, nonostante i due sommassero poco o niente nel curriculum, riferito al torneo maggiore. E nonostante ci fosse Belotti in panchina, un giovane che potrebbe meritare molti più minuti, ma chi si azzarda a disfare un gioco d’attacco così pulito ed efficace?
Anche l’Empoli pensa e pratica una bella manovra da centrocampo in su (oltreché giovare di una ferrea disposizione a tutto campo, con ottima tenuta difensiva), ma siccome le qualità individuali contano sempre, poi non raccoglie i gol che potenzialmente costruisce, perché Tavano e Maccarone sono logori, e gli altri sono acerbi, o incompleti: Sarri li muove bene, loro assecondano, la squadra arremba che è un piacere, ma tutto rimane potenziale. Però il gioco d’attacco c’è e impegna gli avversari, li costringe a rincorrere, ad adattarsi, con guadagno generale che va al di là dei gol mancati perché molte avversarie dell’Empoli finiscono per giocare una partita snaturata, difficile. Altre due squadre che combinano molto bene gli attaccanti sono la Sampdoria e il Sassuolo: non hanno segnato molto, sempre perché tutto va poi ricondotto alle qualità intrinseche dei protagonisti, ma in ogni loro partita c’è sempre un’intenzione e una ricerca continua fra gli avanti. Gli uni giocano per gli altri. Questo incessante movimento, questa occupazione del fronte (senza palla, e con i passaggi) permette di poter usare il tridente (purissimo, fatto di attaccanti veri) perché comunque sottrae uomini alle avversarie, preoccupate di chiudere molte zone del campo. La difesa della Samp, per esempio, comincia proprio dalla saturazione degli spazi d’attacco: lì viene filtrata anzitutto la pericolosità altrui. È una cosa molto ben visibile nelle partite della Sampdoria: è difficile attaccarla con molti uomini perché la mobilità degli attaccanti e la forza fisica dei centrocampisti (terzini compresi) sfibra di lavoro gli avversari.
Il gioco d’attacco è invece assente nel Milan e nell’Inter, un difetto evidente che toglie impatto alle due squadre, affanna anche il resto dei reparti e divarica la classifica in modo raggelante: 20 punti di distacco dal vertice nel solo girone d’andata! Ed è un problema anche per la Roma, con la sua croce: l’unico giocatore che le dà forza d’urto non porta in dote i gol (Gervinho). Gli altri, vanno a periodi, quasi mai concomitanti. Ed è un tarlo della Fiorentina – ma è un problema più specifico e limitato all’intelaiatura di Gomez e Cuadrado (fra loro, nella squadra) perché la squadra di Montella ha comunque una diffusione del lavoro d’attacco e un’idea di coralità offensiva ormai condivisa e tenace.
I giudizi mutano troppo in fretta per essere tutti credibili. Chi a Natale esaltava il lavoro di Inzaghi oggi lo punisce di giudizi cinici. Sono passate tre settimane. Ci fu un grande errore di valutazione a rimorchio del pareggio all’Olimpico: dimostrò una buona tenuta, una buona compattezza, ma fu anche esemplare nell’indicare la balbuzie del gioco, la difficoltà nell’occupare in velocità la metà campo avversaria, la distanza fra gli attaccanti, ognuno perso nel suo binario e Menez, nel gioco in solitaria, per forza brilla più degli altri: è il suo modo di vivere il campo. Eppure, fu un trionfo di critica, abbagliata dal risultato (anche se la Roma d’inverno fatica a vincere contro chiunque). Così come adesso è un’esagerata caccia al colpevole: quando si leggono strali verso la società, certo, c’è del vero, ma il pacchetto di classe nel Milan non è così scarso: Cerci fu uno dei migliori 5 giocatori dello scorso Campionato. El Shaarawy è da “sistemare”, ma non può aver dilapidato tutto, Menez è difficile da amalgamare ma qualcosa sta dando, Pazzini un po’ di mestiere lo possiede (ma sembra sempre fermarsi sulla porta del protagonismo) Bonaventura è un giocatore di qualità, ma andrebbe inquadrato in un ruolo più definitivo. Montolivo e De Jong hanno blasone internazionale (anche se non sono bravi ad accorciare il campo in avanti) . Ci sono dunque delle lacune, soprattutto agonistiche, ma gli elementi per combinare qualcosa di meglio ci sono, ci sono gli attaccanti esterni (la cui presenza è fondamentale, e che altre squadre non hanno), c’è profondità, c’è qualità. Manca certamente un po’ di aggressività ma sono anche doti che si possono trovare “coralmente”. Chi scrive difese e ammirò l’idea iniziale di Inzaghi, di allargare l’attacco, di cercare vie moderne al gioco: quell’idea è rimasta sulla carta, è schierata bellamente (e banalmente) in campo, ma sembra non essere “lavorata”: solo pensata su un foglio. La squadra continua a faticare nell’andare vicino agli attaccanti, la poca salute degli esterni titolari ha impoverito troppo il Milan, che non può dipendere da Abbiati e De Sciglio. Forse mancano interni di centrocampo capaci di “dominare” la partita, di sicuro non ci sono movimenti fra i finalizzatori. Il tecnico è l’elemento fragile del Milan, ma è anche una scelta – forte, condivisa – e ora va difesa, anche contro senso, anche con pazienza che altre volte non sarebbe stata saggia, perché si presume che la rinuncia ad Allegri e poi Seedorf avesse in se una valutazione profonda, seria, di lunga scadenza. Altrimenti, quello è stato il grande errore societario, prima ancora dei giocatori acquistati o mancati.
L’Inter è deludente ma Mancini – rispetto a Mazzarri – almeno è tormentato nel cercare soluzioni: cambia schemi, interpreti, cerca qualcosa. L’altro si era indefessamente bloccato sull’abitudine al suo 3-5-2. È chiaro che tentare la regia con Medel e Guarin è come urlare al mondo l’assenza di una mediana convincente, rapida nel distribuire gioco, nel costruirlo insieme. È chiaro che costringere Hernanes all’esterno – e dire che ci può giocare – è come mentire a se stessi, sapendo di mentire. Però i movimenti di mercato hanno assecondato le nuove intenzioni, mentre altrove deve risolvere il tecnico, arrangiando, insistendo su intuizioni (ma non Hernanes all’ala…e nemmeno Guarin in regia…). Lavorando su quell’argilla fresca che è Kovacic, ancora troppo giovane per avere abitudini irrimediabili. E soprattutto, deve far lavorare gli attaccanti insieme: fra di loro, con i portatori di palla. Deve farli muovere di più, sfinirli. L’Inter non riesce ad appoggiarsi a loro: quanto manca il miglior Palacio, capace di governare qualsiasi rilancio, d’incontrare qualsiasi disimpegno e congelarlo in attacco, in attesa di scambiare con i compagni. Icardi segna ma ha ridotto a questo la sua presenza. Anche lui è materia giovane, e un tecnico ambizioso come Mancini deve poterla agghindare di nuove virtù: il tecnico si è abituato bene, ai campioni fatti, anche di personalità e di mentalità vincente, dunque facili da mettere in campo. Deve ritrovare quell’idea che lo pervadeva ai tempi della Lazio, spesso sprecona, ma quasi sempre ariosa, bella, fantasiosa, veloce. È un banco di prova, servirà voglia, pazienza, ancora pazienza, e fortuna. E soldi, certo. Ma - come per l’altra sponda di Milano – adesso si misura lo spessore dei tecnici, qualcosa da cavare c’è, 26 punti in 19 giornate, meno del 30% di vittorie sono numeri troppo piccoli, anche per due gruppi inferiori alle ambizioni massime e naturali di questi ambienti.
Certo, ci sono maglie che addosso non permettono le mezze recite: chiedono tutto. Ma anche in questo può rimediare una condivisa personalità di squadra, che un tecnico può diffondere come è riuscito a fare Montella a Firenze, un tecnico che è pieno di giocatori d’attacco (una decina) difficili da incastrare, e che ha un centravanti impossibile da presentare. E ha Cuadrado che gioca il suo calcio, non quello degli altri. E Gomez è ormai un alibi che va tolto dal campo, per far respirare l’attacco: i due maggiori giocatori per notorietà non hanno “confezionato” nemmeno un gol insieme, in generale non c’è un viola fra i marcatori (ci sarà, e si chiamerà Babacar), non c’è un viola fra gli uomini assist. Ma c’è la Fiorentina al quinto posto perché in questo caso il gioco d’attacco è il pensiero originario di tutti, è il pensiero del tecnico. Che lotterà per il terzo posto solo se riuscirà a trasformare quella mentalità (che è già un passo avanti alle milanesi) in trame e lavoro d’insieme degli attaccanti. In attesa di Rossi, Montella deve costruire un’azione fra Babacar e Cuadrado. Tolto il pareggio (0-0) con la Juventus, non è un caso che i viola abbiano subito 4 delle loro 5 sconfitte con le squadre immediatamente davanti in classifica (Roma, Napoli, Lazio, Sampdoria), tra l’altro segnando un solo gol e nato da un calcio d’angolo (Savic, contro la Samp). Perché quando l’avversario è forte, e chiude bene gli spazi, e ti assorbe fisicamente, non è facile abbordare l’area con le trame corali, e con molti giocatori. Serve qualcosa lassù, che sia qualità o soluzione individuale, oppure specifici movimenti d’attacco, fraseggi fra i giocatori di ruolo, insomma, uno squisito lavoro di reparto.